Susan:
Quando Nina venne ad abitare qui a H. non fu difficile fare amicizia; dopo nemmeno una settimana mi pareva di averla conosciuta da sempre. Era sempre gentile e sorridente: ricordava un po’ quegli indigeni dei Mari del Sud che si vedono nei vecchi film. Il volto zigomato e la pelle ambrata la rendevano terribilmente esotica qui a H., dove peraltro vivevano già tanti immigrati, ma ben definiti nelle loro caratteristiche etniche, mentre lei pareva piuttosto una continentale anomala, con forme quasi orientali, come se ne trovavano nell’Europa del Sud, mescolate alle più classiche bellezze mediterranee.
Ci volle un po’ di tempo perché iniziasse a parlarmi di quella sua strana e rara malattia, che l’avrebbe condotta alla morte in pochi anni, se non adeguatamente curata. Il suo sistema endocrino non funzionava a dovere e generava, all’inizio in maniera lenta e subdola, poi sempre più veloce e galoppante, sostanze che avrebbero prodotto in pochi anni un precoce invecchiamento e una rapida distruzione delle funzioni vitali.
Cominciai a chiedere in giro ai miei amici, a fare ricerche su internet e finalmente trovai un indirizzo che consentiva di aprire un varco alla speranza. Il Centro di ricerca biotica del dottor Jameson si occupava di malattie rare e prometteva di risolvere numerosi casi in cui la medicina ufficiale e la farmacopea regolare si dichiaravano impotenti. Questo avveniva in quanto i mezzi di cui disponeva il Centro, legato a una fondazione per gli studi olistici di derivazione parasteineriana, erano differenti rispetto a quelli di una casa farmaceutica o di una regolare fondazione scientifica. La vita di una ditta o di un centro di studi scientifici aveva bisogno di una realizzazione economica e mirava alla sperimentazione di farmaci che potessero avere una certa diffusione sul mercato. La fondazione del dottor Jameson poteva dirsi esentata da questi vincoli e aveva la possibilità di dedicarsi liberamente allo studio di quei casi e alla sperimentazione di farmaci e altre modalità curative che riguardassero anche solamente un numero ridottissimo di pazienti. Questi però provenivano da tutto il mondo e costituivano la principale fonte di guadagno di Kenneth H. Jameson e dei suoi ricercatori e impiegati.
Ci accorgemmo solo dopo vari mesi che l’organizzazione funzionava un po’ come una setta, utilizzando i proventi che i pazienti e le loro famiglie versavano sistematicamente, in cambio della speranza, che come si sa non ha prezzo. Ma ormai Nina era entrata ufficialmente nel gruppo di sperimentazione e ne era stata per così dire assorbita, tanto che la si vedeva sempre meno spesso, impegnata com’era a sviluppare la propaganda per i suoi maestri e nuovi amici e a viaggiare, come ci diceva, verso destinazioni impreviste sulle quali doveva mantenere il più stretto riserbo, anche con i familiari.
A un certo punto Nina divenne per così dire invisibile. La segretaria di Jameson sosteneva che si trovasse lontano, prima a Edimburgo, poi in altre località sempre più lontane e difficilmente raggiungibili. Dopo solo qualche settimana aveva cominciato a non rispondere più alle mie domande, quando riuscivo a contattarla per telefono. Non era più autorizzata a divulgare notizie. Se proprio volevo sapere qualcosa mi sarei potuta rivolgere ai suoi parenti, che continuavano a risiedere qui da noi, in Inghilterra. Quando Nina scomparve definitivamente, quando cioè fui sicura della sua irreperibilità, cercai di avere notizie prima di tutto dai suoi e tornai quindi più volte a visitarli. Furono gentilissimi, ma alla mia richiesta di sapere dove fosse Nina rispondevano con larghi sorrisi. Dicevano cose del tipo: È dove deve essere, dove è giusto che sia. In pratica, forse neppure loro sapevano dove si trovasse la figlia, ma la setta di Jameson riusciva comunque a tranquillizzarli. Tutto quello che succedeva avveniva per il bene della loro creatura.
Guido Mura, tu sai scrivere.
🙂
Ho avuto buone maestre da piccolo, Ginevra. Poi, come puoi immaginare, da cosa nasce cosa 🙂
Solo da Guido Mura nascono questi racconti! 🙂
dico che mi sono persa moltissimo di Nina, stando lontana dal web….
Purtroppo in questo periodo non ho accesso costante al web e anch’io posso leggere pochissimo di quello che si pubblica. Comunque, ci sono tante cose che perdiamo nella vita, ventisqueras, e anch’io ne ho perse molte. Ma in fondo un racconto non è un contenuto fondamentale, a meno che non racconti un po’ anche la nostra storia.
Affidarsi a qualcuno, magari alle persone sbagliate, quando non si ha più nulla da perdere e poi rendersi conto che in realtà qualche cosa da perdere, finché si è vivi, c’è sempre. E’ bello leggerti, Guido.
Sì, qualche volta ci si affida ai coltivatori di speranze, ma non solo per i problemi di salute.
Ciao
Pericolosissimi questi gruppi 😦 Questo è un romanzo, ma ne esistono veramente, Certo, quando uno non ha più nulla da perdere può essere tentato di affidarsi a chiunque. Si dice che la speranza è l’ultima è morire, ma ormai è molto tempo che non sono sicuro che sia meglio così…
http://www.wolfghost.com
Accettare di dover scomparire è difficile, wolf
Leggo fra le righe una certa vena polemica… 😀
Ogni tanto ci vuole, Lillo. Non ho mai accettato l’idea che la salute debba essere assoggettata alle regole di mercato.