Il maestro dei cavoletti di Bruxelles

legatura

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Non ho mai conosciuto un essere più inquietante di Romeo Boldrini. Ho seri dubbi che si tratti veramente di un uomo, almeno nel senso che si dà comunemente a questa parola.
L’immagine che mi apparve, quando andai a intervistarlo per la prima volta in carcere, fu quella di una lunga mantide. Era alto e filiforme, un po’ ricurvo, con il viso triangolare e magrissimo, dove la bocca era un’apertura breve e regolare, quasi artificiale. Le braccia erano ossute e dai gomiti spigolosi, gli occhi celestini ed evanescenti, dal taglio obliquo, totalmente inespressivi. Quello che mi sembrò più fuori luogo in quella bizzarra struttura fu la sua singolare propensione al sorriso, un sorriso mellifluo e angosciante come un sogghigno. Nell’insieme quello strano essere sembrava proprio una nuova specie d’insetto, una mantide che sorride.
Gli chiesi di fornirmi la sua versione sulla morte del professor Gregson, trovato cadavere nella torretta che fungeva da deposito della villa Boldrini nel Varesotto, disteso sopra un tappeto di cavoletti di Bruxelles.

Questo fu il suo racconto.

Sono sempre stato un appassionato collezionista di antiche legature. Quando posso, le acquisto; ma, se fanno parte di altre raccolte, vado a vederle, per fare confronti, per datarle, attribuirle a un particolare artefice, a quelli che una volta venivano chiamati maestri. Dedico a questa attività (o meglio, dovrei dire dedicavo) la maggior parte del mio tempo libero. Ora ho meno opportunità di vedere nuovi esemplari e mi limito a studiare e classificare le migliaia di immagini di cui già dispongo e che mio padre mi fa pervenire qui in carcere.
In verità non avevo, e non ho, altri interessi. Non mi sono mai interessato alle donne, a queste signorinelle che si pavoneggiano e scimmiottano le attrici e le ballerine, gallinelle petulanti e sfaticate. E poi che ci farei con una donna? La loro bellezza sfiorisce presto e ci si ritrova con una vecchia gallina rincitrullita da guardare, da seguire, che esige tributi e finte manifestazioni di interesse.
Le legature dei libri invece conservano la loro magnificenza per secoli e secoli; gli ori continuano a risplendere, restituendo con generosità la luce che li colpisce. I segni che vi sono impressi rappresentano, per chi li sa interpretare, uno dei più alti messaggi della vita culturale di un’epoca.
Quanto splendore e quanta abilità in quelle raffinate impressioni dei ferri del legatore sul cuoio sublimemente trattato e colorato o sulla più sottile pergamena, quale desiderio da parte del possessore di immortalare la propria esistenza e il proprio amore per la cultura su quegli oggetti insieme robusti e delicati, austeri o raffinati, secondo le predilezioni del committente e il gusto dell’esecutore.
Ho tanti corrispondenti che condividono con me la stessa passione; sono per lo più studiosi che analizzano gli oggetti presenti nelle collezioni di libri antichi della loro università e che li confrontano con i volumi provenienti da altre aree.
C’è una fitta circolazione di immagini e di schede descrittive, che prima avveniva per lettera, ma poi, sempre più spesso, ha finito per utilizzare le possibilità offerte dalle reti informatiche, che consentono uno scambio immediato di informazioni.
I miei corrispondenti sono quasi tutti stranieri: tedeschi, olandesi, francesi, inglesi e qualche spagnolo.
Uno dei più autorevoli studiosi con cui avevo relazioni epistolari era però un inglese, che si occupava di storia della legatura e che la insegnava presso la sua università. Naturalmente il professorone era piuttosto spocchioso e considerava con una certa sufficienza quei poveri appassionati che s’interessavano di legature a livello amatoriale, senza l’ombrello costituito da una cattedra universitaria.
Spesso i suoi giudizi perentori e sarcastici ferivano le sue vittime e ne scemavano l’autorità, impedendone l’affermazione nel mondo accademico.

Ma arriviamo al fatto che fu foriero di tanti successivi e drammatici avvenimenti.
Avevo reperito due legature in marocchino rosso con una ricca decorazione in oro che ripeteva ossessivamente un modulo consistente in un piccolo imperfetto cerchio dorato, impresso in maniera irregolare sul colorato splendore del marocchino. Gli esemplari erano perfettamente conservati ed erano provvisti di carte di guardia coeve con l’impronta dei rimbocchi.
In apparenza c’era una certa rassomiglianza con la produzione attribuibile al cosiddetto Maestro delle squame di pesce, che in realtà proveniva dalla bottega dei fratelli romani Gregorio e Giovanni Andreoli. Ma sia l’insieme del disegno, considerate le volute contrapposte nella cornice, sia le modalità d’impressione dei ferri esprimevano un gusto abbastanza diverso, che mi fecero optare per un’attribuzione all’area dei Paesi Bassi.
La presenza di due legature non attribuibili ad una particolare bottega e con caratteristiche così precise faceva presumere l’esistenza di un artigiano che stabilii di chiamare Maestro dei cavoletti di Bruxelles, perché, con ogni evidenza, questi piccoli e deliziosi ortaggi erano rappresentati nell’apparato decorativo, unitamente ad altri elementi, meno insistiti, di derivazione vegetale.
Scrissi un articolo, in tedesco, in cui descrivevo il mio fortunato ritrovamento, e lo pubblicai su una delle riviste gestite dai miei corrispondenti teutonici.
Le immagini che vennero stampate, in bianco e nero, non rappresentavano nella maniera migliore la decorazione che si ripeteva sui piatti, ma evidenziavano a sufficienza la forma del modulo decorativo, che era indubitabilmente quella caratteristica del cavoletto di Bruxelles.
Purtroppo, Gregson lesse l’articolo e ne scrisse un altro, in cui ridicolizzava la mia attribuzione e descriveva i moduli come scudi, anziché come cavoletti. L’idea che un vegetale poco diffuso, mai rappresentato in araldica e sconosciuto ai manuali di iconologia, potesse essere ispiratore di un motivo ornamentale specifico veniva rifiutata come balzana e dilettantesca.
Il professore non ammetteva che un giovane studioso non sufficientemente qualificato ardisse proporre descrizioni che gli sembravano troppo creative e avventurose e affermava che, senza dubbio, l’immagine rappresentata e costantemente ripetuta si ispirava agli scudi della tradizione classica.
In conseguenza di questa stroncatura ebbi difficoltà, per qualche tempo, a pubblicare le mie ricerche presso riviste qualificate. Il mio sogno di entrare nel Gotha degli studiosi della legatura d’arte pareva essersi infranto per colpa di quel borioso personaggio: dovevo… dovevo fargliela pagare cara…

Malgrado tutto, ero rimasto in relazione con il professore, che aveva l’abitudine di viaggiare molto e di venire spesso in Italia.
Durante uno dei suoi soggiorni italiani, lo invitai nella mia villa in campagna, per mostrargli alcuni esemplari di legature che avevo trovato in un vecchio palazzo di Parma.
Gregson arrivò puntuale, da buon inglese: grassoccio, elegante e ben sbarbato, pronto ad esaminare le splendide legature che gli avevo selezionato e a fornire il suo augusto parere.
Passammo in rassegna gli esemplari, che il professore classificò senza eccessive difficoltà, in modo non difforme dalla mia valutazione. Ma quando giungemmo alle due legature che io avevo attribuito al Maestro dei cavoletti, Gregson si mise a sproloquiare sulla sua scoperta del Maestro degli scudi e a rimproverarmi per la mia avventatezza.
Presto la discussione assunse toni accesi: ognuno era convintissimo delle sue buone ragioni e io non potevo certamente permettere che il professorone continuasse a sostenere una tesi manifestasmente falsa: dovevo convincerlo del suo errore.
– Sono cavoletti, Gregson, ma lei è ostinatello, sa… sa che è difficile farla ragionare… Vede quelle strane irregolarità nell’impressione in oro: rappresentano sicuramente la giustapposizione delle foglie del cavolo; non potrebbe spiegarsi, se si trattasse di uno scudo.
– Ma sta scherzando, signor Boldrini? Le impronte dei ferri sono abbastanza evidenti e raffigurano un tondo con umbilicus centrale; si tratta cioè di scudi, scudi umbilicati. Le irregolarità che lei denota sono dovute a un’imperfezione del tool, che non ha consentito un’impressione regolare. Ci sono esempi di questo tipo negli esemplari n. 485 e 486 del British Museum e in altre legature di area olandese o fiamminga presenti nella Koninklijke Bibliotheek.
– Non sono scudi, professore, lo vedrebbe anche un bambino; lo spessore dell’oro è troppo irregolare. Ma forse lei non conosce bene i cavoletti di Bruxelles, sono verdi e rotondi, proprio come scudi, ma hanno una struttura a foglie che è proprio quella rappresentata. Sa che noi qui li produciamo; ne abbiamo anzi già un deposito pieno, prima che vengano a ritirarli per portarli al mercato. Glieli farò vedere, per farle cambiare idea.
Ma il mio interlocutore si mise a celiare e affermò che difficilmente avrebbe cambiato idea su una cosa così evidente.
Naturalmente avevo un mio piano per condurre Gregson ai cavoletti, piuttosto che i cavoletti a Gregson, e per costringerlo a recedere dalle sue posizioni.
Dovevo fargli bere qualcosa, ma non una grappa o un altro superalcolico dal sapore ben definito. Finalmente riuscii a fargli provare un vermut della zona, corretto con una discreta dose di ipnotico. Il professore fece qualche smorfia, ma non conosceva il prodotto e quindi non sospettò che il suo strano sapore fosse dovuto alla mescolanza con una sostanza medicinale e non a qualche rara erba aromatica dell’habitat alpino. La sua perfetta educazione gli impedì di manifestare apertamente il suo disappunto sputando di bocca l’intruglio e così ne ingurgitò a sufficienza perché l’effetto sedativo si manifestasse in maniera violenta. Appena l’uomo fu in mio potere, ne approfittai per legarlo strettamente e trascinarlo, semiaddormentato, fino al deposito in cui giacevano i cavoletti.
Qui lo imbavagliai, gli legai strettamente anche le gambe, aprii la porta del locale, che era circolare come un silos, e, con uno spintone, lo buttai di sotto, dove lo attendeva un verde tappeto di cavoletti di Bruxelles.
Gregson cadde pesantemente nel contenitore, ma i cavoletti attutirono il colpo. Si mise a bofonchiare qualcosa, sotto il bavaglio, e divenne tutto rosso in volto.
Presi una scaletta mobile e la feci penzolare all’interno del cilindro, poi cominciai a scendere, per quasi due metri, fino a raggiungerlo.
Lo guardai mentre si agitava e tentava goffamente di emettere dei suoni articolati; gli tolsi il bavaglio. Sembrava essere di nuovo cosciente; forse la paura aveva preso il sopravvento sul farmaco.

– Per l’amor di Dio, Boldrini, mi liberi e non dirò nulla; se è uno scherzo, la finisca subito.

– No, lei prima deve ammettere che sono cavoletti, come quelli su cui sta sdraiato.

– No, non è possibile, la prego… è lei che si sbaglia… tutti hanno detto…

Era sconvolto e iniziò a blaterare qualcosa in inglese, che non riuscii a capire… Poi sentii qualche imprecazione, frasi che esprimevano una forte disapprovazione e altre più colorite, che da lui non mi sarei mai aspettato. Io non amo il turpiloquio: mi fa andare in bestia. Fu allora che cominciai a infilargli i cavoletti in bocca, Lui cercava di sputarli, ma io ero più veloce e perseverante. Dopo un po’ vidi che strabuzzava gli occhi mettendosi a guardare un punto invisibile, più in alto della mia faccia. Non si agitava più. Gli inserii un ultimo cavoletto nella bocca semiaperta: era buffo con quella rotondità verdognola che gli spuntava dalla cavità orale e con gli occhi a palla, quasi fuori delle orbite. Non si muoveva.
Mi avvicinai e mi accorsi che nemmeno respirava. Quel paffuto e vanesio buffone inglese non respirava. Ma se l’era cercata. Era stata la sua ostinazione a ucciderlo. Era come se i cavoletti, da lui misconosciuti e vilipesi, si fossero vendicati. Loro l’avevano ucciso, non io:

IO NON SONO MICA UN ASSASSINO!

Una risposta a Il maestro dei cavoletti di Bruxelles

  1. deorgreine ha detto:

    Eh già, scommetto che nemmeno la mantide pensa di essere una assassina. Bello! Mi è piaciuto molto, moltissimo. Inquietante e pieno zeppo di informazioni interessanti sulle legature.

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