Il professore

Sono solo, ora. Preparo due hamburger alla piastra e bevo una birra scura, dal nome famoso, che ha pochissimo alcol e sa di caffè amaro: è gelata e mi disseta. So che la mia vita è segnata; posso anche confessare senza temerne le conseguenze; tanto tutto finirà presto, troppo presto.
Non c’è nessuno ad ascoltarmi, mentre parlo, cioè non c’è nessun essere umano, ma solo una macchina, con un microfonino piccolo, quasi ridicolo, dal color bianco sporco, una sorta di orecchio che riporta il suono della mia voce e lo conserva sul pc come sequenza di 0 e 1 e lo visualizza in forma di onda, fedele, anche troppo fedele. Qualcuno ascolterà le mie parole quando sarò morto. Bisogna che lo dica prima, a qualcuno, di cercare nei documenti del computer; altrimenti nessuno lo farà. Nessuno si mette a curiosare tra i file di una persona morta: preferiscono formattare il disco. Nessuno andrà mai neanche a recuperare le parole seminate in giro, sul web. Così ogni verità si perde. Ognuno conserva l’immagine ufficiale e positiva che ha sempre presentato in pubblico, la sua faccia perbene, il suo aspetto più conosciuto e rassicurante. Ma il suo doppio cupo e sconcertante, le sue frequentazioni nascoste, le sue meschinità, i suoi vizi e le sue anomalie giacciono da qualche parte, in forma di pensieri, messaggi, azioni sconosciute (ma ben impresse nella mente di qualcun altro), nei file, nei commenti, in un taccuino segreto, in un portentoso tesoro di segnali e di ricordi, che il cercatore non ritroverà mai senza il consenso del proprietario.
Però non era certamente questo che volevo dire: sto girando attorno al mio racconto, come se avessi paura di riaprire un capitolo segreto e tormentato della mia vita; mentre ormai non ho più nulla da temere da questa vita, se non la morte, che è già in cammino e che ormai conosce bene la strada.
È una storia di tanti anni fa, che risale a quando esercitavo le funzioni di docente in una celebre università, di cui però preferisco non fare il nome. Le mie lezioni riscuotevano un notevole successo, forse perché i giovani sentivano uscire dalla mia bocca le parole che volevano sentire, gli slogan che loro stessi urlavano in pubblico e scrivevano sugli striscioni. Ero io ad accarezzare la tigre e a scatenarla contro i miei nemici di sempre, i baroni borghesi, che dominavano il mondo accademico, pavoneggiandosi nel loro ridicolo potere che sapeva di muffa. Ero io a profetizzare l’avvento di una nuova generazione che avrebbe fatto piazza pulita dei luoghi comuni e avrebbe inventato una società nuova e più giusta.
Non so se credevo veramente alla possibilità di un rivolgimento così radicale, ma capivo che tanti ci credevano e che il mio ruolo era quello di recitare la parte dell’annunciatore di un mondo di progresso e di giustizia.
Questo ruolo di protagonista del mondo nuovo, unito alla mia naturale facondia, ad un fisico asciutto e gradevole e a un viso giovanile, che una barba ben curata rendeva interessante, mi aveva fatto diventare il beniamino dei giovani progressisti. Le mie allieve, poi, facevano di tutto per conquistare una delle poche tesi che riuscivo a seguire. Non posso e non voglio nascondere che qualcuna riuscì anche ad avere con me un rapporto privilegiato, che talvolta si trasformò in una breve relazione sentimentale.
Devo dire che non ero mai io a fare il primo passo e a proporre uno scambio indecente di favori. Erano piuttosto le ragazze a condurre il gioco, che solitamente cessava non appena avevano ottenuto il risultato desiderato. Molte di loro hanno poi fatto strada nel mondo giornalistico o nella carriera universitaria, mettendo a frutto le loro indubbie qualità intellettuali e la loro sublime assenza d’inibizione.
La mia vita trascorreva gloriosa e soddisfatta, tra un convegno e una discussione accademica, finché non incontrai una persona speciale.
Nicoletta era una ragazzina bruna, dagli occhi vivaci e ridenti. Non era più bella di altre donne del suo tipo che avevano allietato i miei giorni e le mie notti di scapolo. Ma c’era qualcosa in lei che faceva immaginare incanti e soddisfazioni più grandi di quelli reali; il suo sguardo e il suo sorriso erano pieni di promesse di misteriosi piaceri, anche se poi quelle promesse, in fondo, non si realizzavano e i piaceri immaginati continuavano a rimanere sepolti nell’oscura profondità della mente.
Nicoletta era, perciò, più che bella, affascinante e la naturale attrazione che la circondava come un’aura coinvolgeva anche i suoi coetanei. Lei, bisogna dire, non li incoraggiava molto e non mostrava di prenderli sul serio. Le sue priorità in quel momento erano diverse: puntava al successo e capì che con me avrebbe avuto una grande occasione. Frequentava le mie lezioni con regolarità, prendendo appunti in un suo quadernone giallo, e incontravo spesso i suoi occhi nocciola dai riflessi dorati che mi guardavano con un interesse che mi pareva non limitarsi ai contenuti delle mie proposizioni.
Poi cominciai a trovarmela davanti nei momenti più impensati, nei caffè che frequentavo, persino al market in cui facevo la maggior parte dei miei acquisti.
Diventammo così familiari che non ebbi problemi ad invitarla a casa mia. Le prime volte mi sforzai di tenere un atteggiamento corretto; leggevo i suoi elaborati e li discutevo, trovando in lei un’interlocutrice intelligente e originale. Ma poi, lentamente, l’attrazione che provavo per lei mi spinse a cercare un rapporto meno professionale. Cominciai ad accarezzarla sulle spalle o sulle gambe inguainate nei jeans celeste chiaro, stretti e morbidi come una seconda pelle. Guardavo con desiderio quella porzione di pelle liscia e bruna che appariva tra i jeans e la maglietta corta, ma non osavo ancora far seguire il tocco della mia mano allo sguardo. Tenerla comunque stretta in un abbraccio paterno e amicale mi procurava un profondo turbamento e capivo che la situazione si sarebbe evoluta attraverso progressivi slittamenti fino a raggiungere il pieno contatto fisico, che solo avrebbe potuto rendere sopportabile quella bizzarra eccitazione, già provata altre volte, ma mai con una tale insostenibile intensità.
L’estate, infine, diede il colpo di grazia alle residue resistenze di entrambi. L’abbigliamento di Nicoletta cominciò a lasciare scoperte parti sempre più estese del suo corpicino flessuoso. Le mie carezze perciò iniziarono a diventare meno discrete, anche perché effettuate sulla pelle nuda e non più sui tessuti che la rivestivano. Così, finalmente, le mie mani. risalendo sulle sue gambe giunsero fin dove prima non avevano avuto occasione di arrivare, con irrisoria facilità e, messa da parte ogni finzione, iniziarono carezze che lei, ormai profondamente coinvolta e incapace di resistere, non rifiutò. Pochi minuti dopo, la mia bocca sostituì le mani nella ricerca di quell’intimità per tanto tempo rimasta segreta. Lei tratteneva la mia testa con le sue mani, come per evitare che il mio movimento potesse cessare all’improvviso, mentre si abbandonava all’indietro sullo schienale del divano.
Fu quello l’inizio di una relazione impossibile, ma eccitante, che doveva produrre effetti impensabili. Mentre ero sempre riuscito a tenermi emotivamente distante, per quanto fattibile, dalle vogliose e opportuniste ragazzette che mi affidavano il loro futuro, con Nicoletta qualcosa di oscuro prese il sopravvento. Per la prima volta nella mia vita ero geloso e capivo di non avere la situazione sotto controllo. Non potevo sopportare che lei continuasse a coltivare un suo spazio di relazione, amicizie femminili e maschili, frequentazioni e piaceri, che dovevo supporre innocenti, ma dai quali io ero naturalmente escluso. Finivo per sospettare che la mia presenza nella sua vita fosse solamente strumentale, che lei cioè mi usasse per raggiungere i suoi obiettivi, al di là delle soddisfazioni erotiche che la nostra relazione era in grado di offrirle.
Cominciai persino a seguire l’oggetto del mio irrazionale sentire, precipitando in un abisso che mi allontanava sempre più dal mio procedere razionale, e me ne stupivo, nei momenti in cui riprendevo il controllo dei miei pensieri; ma questi momenti divenivano sempre più rari, mentre un fuoco sconosciuto mi divorava, ponendo al sommo delle mie preoccupazioni una sola di queste: il timore di perdere Nicoletta, di non poterla più incontrare e godere con lei di quella morbida e gioiosa naturalezza che era il privilegio del nostro rapporto.
Non potevo nemmeno farle scenate di gelosia, per coerenza con i miei abituali comportamenti e con le mie più profonde convinzioni. Lei non doveva dubitare della mia superiorità intellettuale e della mia capacità di tenere a freno le emozioni, per evitare di cadere in comportamenti meschini e lontanissimi dal dominio degli istinti ancestrali che avrebbe dovuto essere proprio di un filosofo, quale mi pregiavo di essere.
Seguendola, con discrezione ma con pervicacia, mi resi conto che lei, pur assecondando il mio piacere e tenendosi a mia disposizione per il tempo che la prudenza consigliava, non aveva rinunciato a una sua autonoma vita sociale.
Anzi, dopo essere diventata la mia amante, Nicoletta, che prima pareva insensibile alla corte degli altri ragazzi, aveva iniziato a incontrarsi con un suo quasi coetaneo, un ragazzino brillante e fresco di laurea, non brutto, ma nemmeno particolarmente attraente: Il principale suo pregio sembrava però essere uno spirito ironico e dissacratore che lo rendeva divertente agli occhi della ragazza, che con lui si sentiva a suo agio (o almeno così le pareva).
Il giovane, che si chiamava Bruno, era piuttosto mingherlino, poco più alto di lei e aveva un muso puntuto, la bocca stretta e un naso sottile, che gli davano un aspetto arguto e furbesco.
Cercai di convincere Nicoletta a non dare importanza al suo rapporto con quel ragazzo; ma lei se n’era letteralmente invaghita. Compresi che ero scivolato a un livello inferiore nella scala delle sue priorità sentimentali e lei stessa non fece mistero della sua intenzione di impegnarsi seriamente con quel suo spasimante e addirittura cominciò a parlare di matrimonio.
Sapevo che i due giovani s’incontravano spesso e avevano certamente rapporti sessuali e la cosa iniziò a disturbarmi, fino a che non la ritenni addirittura insopportabile. Di notte mi accadeva di pensare con disgusto agli incontri della mia graziosa amica con quella specie di furetto e mi pareva quasi che il loro amplesso (quello che mi pareva d’immaginare) fosse un atto contro natura. Bruno mi appariva ormai come una sorta di animale e immaginavo il coito dei due giovani come quello di un mustelide con una femmina della specie umana. Era necessario troncare quel rapporto, evitare quelle brutture, recuperare l’ardore appassionato che sempre meno spesso Nicoletta mi dedicava. Bisognava modificare quella vicenda, ma come? Gli avvenimenti stavano precipitando e ben presto la mia Nicoletta sarebbe stata sempre più distante da me e forse esclusa per sempre dalla mia vita. Non potevo ricattare Bruno e costringerlo a staccarsi dalla ragazza, per non fargli capire quanto forte fosse ormai diventato il mio legame affettivo con lei e come anzi si fosse sviluppato sino al punto di farmi perdere la mia preziosa razionalità. Dovevo agire con astuzia e intervenire senza farmi notare, mostrando di accettare un ruolo subordinato, mentre la mia vera funzione era quella di essere motore dei fatti.
Bruno aveva bisogno di me, per la sua carriera, e decisi di parlargli senza testimoni, in istituto, una sera in cui bighellonava per i corridoi, ormai quasi deserti.
Gli dissi chiaramente che avevo una relazione con Nicoletta.
« Lo so » fu la sua risposta. Poi aggiunse che non era geloso e che se Nicoletta preferiva un rapporto aperto, non sarebbe stato certamente lui a rinunciare a lei per questo motivo. Probabilmente contava sul fatto che, essendo molto più giovane di me, avrebbe finito prima o poi per rimanere padrone del campo.
Feci finta di trovare un accordo con lui. Bruno avrebbe acconsentito a qualche ulteriore scappatella di Nicoletta, in cambio del mio appoggio in ambito accademico. Il suo atteggiamento era pratico e disinvolto, di una totale disinvoltura morale. Sembrava che non si rendesse conto che il suo patto con me equivaleva a una vendita del corpo di Nicoletta. In cambio di quella temporanea cessione quel cinico individuo avrebbe avuto i suoi vantaggi. Non era il solo in quell’ambiente, a dire il vero, a tentare la fortuna con ogni mezzo e si sa che, alla fine, si ricordano solo i risultati raggiunti e non lo stile e gli stratagemmi utilizzati per ottenerli.
Ben presto il rampante giovanotto iniziò a lavorare all’università, anche con il mio appoggio, e si mise ad assecondare con passione tutti gli intrallazzi di cui veniva a conoscenza. Questo lo rendeva particolarmente utile nelle occasioni in cui era necessario trovare qualcuno disponibile a dimenticare gli obblighi della giustizia e della legalità, pur di realizzare il bene comune, ma ne faceva anche un temibile testimone, nel caso in cui qualche verità nascosta fosse trapelata.
Ben presto si vide che le sue condizioni economiche erano divenute esageratamente floride e che il suo treno di vita viaggiava su binari privilegiati. Anche Nicoletta fruiva dei vantaggi del successo del suo ragazzo e lo accompagnava spesso nelle sue feste e nelle sue dispendiose follie. La cosa le piaceva e più le piacevano i regali che con ingenuità e civetteria mi mostrava, nei nostri ormai rari incontri segreti.
Bruno non badava a spese e si capiva che le sue quotazioni continuavano a salire nel listino dei titoli di Nicoletta, mentre le mie scendevano inesorabilmente.

Dovevo studiare un modo per allontanarlo per sempre dalla vita della mia preferita.

Dopo molte esitazioni pensai che non avevo alternative. Ovvero le scartai tutte. Spedirlo all’estero non avrebbe risolto il problema. Anzi, Nicoletta avrebbe scoperto il manovratore occulto nella decisione di Bruno di lasciare l’Italia e forse avrebbe addirittura seguito il suo ragazzo, per farmi dispetto. Convincere Bruno a lasciarla non era nelle mie possibilità: non ero abbastanza ricco per avere quel potere. L’unica cosa da fare era eliminarlo fisicamente. In fondo, togliere la vita è un’azione naturale che rientra nel quadro delle possibilità. Sapevo che ben pochi delitti hanno come esito una condanna e d’altra parte il rischio fa parte del gioco. Addirittura il piacere intellettuale della elaborazione di un delitto perfetto costituisce la principale soddisfazione dell’azione criminosa. La cosa più importante è che i delitti non vengano riconosciuti come tali, il che è abbastanza facile: basta che il corpo non venga trovato e che il movente non appaia in maniera troppo trasparente. Quando qualcuno scompare, la prima ipotesi formulata dagli inquirenti è che si tratti di un allontanamento volontario, cosa che nel caso di Bruno, personaggio discutibile e invischiato in tanti loschi affari, poteva essere credibile.

Per mia fortuna (e per sua disgrazia) Bruno era cacciatore. Lo ero anch’io, di tanto in tanto, e si era appena aperta la stagione della caccia. Convinsi Bruno a unirsi a me per cacciare insieme, in un giorno in cui non avevo lezione all’Università, ma mi feci invitare a una battuta di caccia per il giorno precedente, in modo da giustificare l’eventuale presenza sul mio corpo di polvere da sparo. Ci saremmo dovuti incontrare su uno spiazzo che portava al bosco di Bisaccia, dove di solito si trovava la migliore selvaggina stanziale. Arrivai almeno un’ora prima di lui e nascosi la macchina un po’ più in là, in modo da non renderla visibile da parte di eventuali altri cacciatori. Avevo cambiato le gomme in garage, mettendo su un paio di gomme vecchie, ma ancora utilizzabili, che avrei buttato successivamente in una discarica. Non volevo che la mia presenza nel bosco fosse rivelata dalle impronte delle mie gomme. Allo stesso modo e per lo stesso motivo mi sarei liberato degli stivali, anche quelli ormai allo stremo, dopo tanti anni di servizio, e di fatto non più usati da tempo. Dio, a quante cose bisogna pensare per eliminare la miserabile vita di uno di questi malvagi animaletti che si definiscono uomini, che la natura e il destino spazzano via a migliaia, ogni giorno, senza preoccuparsene troppo e senza doversi procurare neanche un alibi!

Mi ero appostato e, per la prima volta nella mia vita, notavo cose sulle quali il mio sguardo non aveva mai avuto occasione di soffermarsi o, se l’aveva fatto, non ne era derivata una visione cosciente e consapevole. Vedevo la vita che s’infiltrava dappertutto, che sbocciava nei punti più impensabili, attraverso un foro nel catrame o una fessura nel cemento. Osservavo con curiosità quella stessa vita che invece io volevo recidere in un essere umano, che si frapponeva fra me e l’obiettivo da raggiungere.
Improvvisamente qualcosa di nero si mise a zampettare tra gli alberi. Era o pareva essere un merlo: lo riconobbi dal becco color arancio. Poi spiccò il volo, con un veloce frullio di ali. Non avevo mai notato quanto fosse veloce quel movimento, né quanta armonia vi fosse nell’agire di quell’animaletto nero e pennuto. Bella e piacevole la natura, ma anche crudele e spietata, nel perenne lottare degli individui e delle specie. E io non potevo non pensare in quel momento che la mia azione, quella che avevo compiutamente e minutamente organizzato, non era altro che seguire una legge di natura, quella che spinge i competitori, nell’ambito di una specie animale, a una lotta senza esclusione di colpi, per il predominio, per il possesso delle femmine e dello spazio vitale.
All’ora dell’appuntamento Bruno però ancora non si vedeva e mi venne paura che avesse avuto qualche contrattempo. Non mi avrebbe potuto avvisare in nessun modo. In quegli anni ancora non si disponeva di un cellulare e pertanto non era possibile comunicare una volta che ci si fosse mossi da casa. Avrebbe potuto parlare con qualcuno (e con la stessa Nicoletta) del suo appuntamento con me, ma anche se fosse risultato che eravamo andati a caccia insieme, avrei ammesso serenamente la cosa e dichiarato che poi il giovanotto era rientrato in buona salute con la sua macchina.
Quando ormai stavo perdendo le speranze, l’auto della mia vittima entrò nel piazzale e si fermò, proprio a destra, sul lato del bosco. Sembrava che Bruno volesse facilitarmi il compito, per essersi collocato a pochi metri da dove io lo stavo attendendo, con il fucile carico. Per rendere ancora più facile la mia azione, il giovane scese dalla macchina e venne a cercarmi, pensando giustamente che magari mi fossi addentrato nel bosco con il mio mezzo. Lo inquadravo perfettamente e non potevo mancarlo; mirai alla testa e feci fuoco. Il rumore dello sparo fu attutito dalla nebbia e sembrava quasi che non fosse successo nulla. Solo che la figura snella del giovane non si muoveva più tra i cespugli, ma era distesa per terra, tra le foglie cadute e il terriccio umido, con la testa trafitta da una pallottola.
Dovevo fare in fretta, prima che qualcuno potesse passare per caso. Prima controllai se l’auto del giovanotto avesse o meno le chiavi sul cruscotto. Non c’erano, ma le trovai immediatamente nel suo giaccone. Pensai di sfilarlo dal corpo, ma poi vidi che si era macchiato di sangue e perciò lo lasciai dov’era. Raccolsi tutto quello che poteva rivelare l’avvenuto omicidio e i documenti di Bruno, patente e carta d’identità, e infilai il materiale in una doppia busta di plastica, che avevo portato con me, già pronta per l’operazione; un’altra duplice busta la utilizzai per infilarci la testa dell’uomo e la legai sotto il collo, in modo che non perdesse materiale organico. Poi mi caricai il cadavere sulle spalle e mi avviai verso il punto in cui avevo deciso di farlo sparire.
Conoscevo bene quel territorio e ne avevo studiato le caratteristiche. Poco lontano dal luogo dell’incontro, un sentiero scosceso portava a una specie di frattura del terreno. Tra due lame di roccia si era formato un crepaccio di cui non s’intravedeva il fondo. Avevo fatto tante prove, lasciando cadere nel crepaccio sassi o pezzi di legno, ma non si capiva nemmeno quale ne fosse la profondità. Dall’ampiezza dell’apertura ero certo che il corpo di un uomo sarebbe entrato nella fessura comodamente e sarebbe precipitato per molte decine di metri, in una fossa in cui nessuno si sarebbe potuto facilmente introdurre per fare la ricerca di un cadavere. L’unico rischio reale che correvo era che qualche cacciatore stesse percorrendo il bosco o si fosse appostato lì vicino, ma fortunatamente in quel momento non c’era nessuno: non si vedevano né cani né uomini. Mi infilai veloce nel sentiero, cercando di stare al riparo fino a che non mi trovai sull’orlo della voragine. Qui deposi su uno spuntone di roccia il corpo che aveva appesantito il mio camminare fino a quel momento e poi lo lasciai scivolare nel vuoto.
Ormai ero libero, ma dovevo compiere ancora una serie di azioni indispensabili per rendere credibile la ricostruzione dell’allontanamento volontario della mia vittima e vivevo un momento di forte eccitazione. Prima di tutto dovevo riportare in città la macchina di Bruno e lasciarla lì, nella nebbia, in una strada periferica, non troppo distante dalla casa del suo proprietario. Ebbi fortuna anche in questa parte della rappresentazione, perché scesi velocemente la stradina che dalla Bisaccia conduceva in città e riuscii a trovare parcheggio, senza farmi notare, a pochi isolati dalla casa di Bruno. Ora iniziava la parte più faticosa dell’operazione. Dovevo risalire a piedi velocemente, prima che il giorno fosse troppo inoltrato, fino al punto del bosco in cui avevo lasciato la mia auto e portarla via dal luogo del delitto. Grazie al mio ottimo senso dell’orientamento arrivai al piazzale in meno di venti minuti, tagliando per il bosco e ritrovai subito la macchina. Non avevo perso la mia lucidità ed ero veramente fiero della mia abilità nel gestire una faccenda così complessa. Riportai la macchina a casa, sempre percorrendo quella strada deserta, e la infilai in garage, finalmente al sicuro.
Una volta arrivato, cambiai di nuovo le gomme, rimontando quelle nuove, e mettendo da parte quelle vecchie, di cui mi sarei liberato nel pomeriggio. Ero stato velocissimo e con la stessa premura mi preparai per essere presente all’università per le undici. Dovevo apparire sereno e perfettamente normale e così avvenne. Durante la lezione riuscii a mostrare la mia immagine consueta e a improvvisare uno dei miei più efficaci discorsi, condito con qualcuna delle mie migliori battute, quelle che tanto erano apprezzate dai miei studenti e invidiate dai colleghi.

Come immaginavo, nessuno mise in relazione l’improvvisa scomparsa di Bruno con la mia persona. Non si poteva immaginare che il giovanotto mi fosse per qualche ragione d’impedimento e anzi (e io non l’avevo mai nascosto) si sapeva che proprio grazie al mio appoggio aveva avuto inizio la sua carriera universitaria. La mia relazione con Nicoletta non era stata particolarmente sottolineata e rientrava nella congerie di avventure irrilevanti di cui la mia vita era costellata.
La ragazza soffrì molto per l’interruzione del suo rapporto col fidanzato e non voleva credere a una sua improvvisa fuga. Ma quando vennero alla luce i numerosi garbugli in cui Bruno si era infilato, cominciò a prendere le distanze da quella storia, che minacciava di coinvolgerla pesantemente. Non aveva più l’entusiasmo per provare a costruire un’altra relazione con un coetaneo e fece sempre più riferimento a me, come amico e come amante. Ora sentiva più di prima un desiderio di protezione e io rappresentavo un approdo tranquillo e sicuro. Finalmente avevo raggiunto il mio obiettivo. Nicoletta mi apparteneva e la tenevo saldamente avvinta, anche perché le mie condizioni economiche erano diventate decisamente floride, grazie ai miei ottimi investimenti, ed ero in grado di assicurare a una donna tutte le comodità e le attenzioni che desiderava, che tutte, si badi bene, hanno un costo (e infatti non tutti se le possono permettere, anche se le donne, per non mostrarsi venali, preferiscono affermare che si accontentano di un “segno”, salvo offendersi mortalmente se quel “segno” non è sufficientemente costoso). Lasciato trascorrere il tempo sufficiente per non far sorgere sospetti, che mi potessero collegare con la scomparsa di Bruno, decisi di far entrare Nicoletta nella mia vita in modo palese, chiedendole di trasferirsi da me. Lei accettò. Amava molto la mia casa, non troppo vecchia né troppo moderna, da cui si potevano raggiungere facilmente sia l’università che il centro cittadino, e che era già provvista di tutte le possibili comodità. Lei intendeva comunque personalizzarla, per renderla più vicina a sé, anche se, come tante coppie moderne di orientamento progressista, non intendevamo regolarizzare la nostra posizione con un matrimonio.
All’inizio, l’entusiasmo per la nuova esperienza della vita in comune produsse come effetto un desiderio di rinsaldare l’unione e di cementarla con un figlio. Poi, come c’era da attendersi, la consuetudine e la stabilizzazione del rapporto, anche se non ufficializzato, produssero col tempo un calo del desiderio reciproco. Proprio quando la coppia stava iniziando a sperimentare una prima fase di crisi, Nicoletta rimase incinta per la seconda volta. Decidemmo insieme di tenere anche questo nuovo frutto della nostra unione. Entrambi i bambini avevano deciso di nascere di sesso maschile.

Dopo la nascita del secondo figlio, la mia compagna cominciò a entrare dichiaratamente in crisi.
In fondo io costituivo per lei un rifugio, ma in qualche misura ero stato anche un ripiego dopo la strana scomparsa del suo fidanzato e non sono mai riuscito a capire veramente quali fossero i suoi reali sentimenti nei miei confronti.
Fatto sta che perse interesse per la sessualità e persino per il lavoro. Cosicché a un certo punto decise di lasciare l’università senza sostenere il concorso per associato e preferì dedicarsi all’educazione dei figli.
Fu in questo periodo che il passato, sul quale speravo si fossero accumulati strati di polvere, depositi di foglie e di piume, sovrastati dalla nebbia che domina i nostri boschi e le nostre campagne, riemerse con qualche strepito e frastuono, con la violenza di un grosso sasso precipitato in una placida pozza d’acqua.
Sfortunatamente, tra le mode che la nostra opulenta società non mancava di sviluppare e incoraggiare, si stava affermando anche nella nostra regione quella per la speleologia. Così avvenne che il neocostituito gruppo speleologico cittadino decidesse di studiare le buche e le spelonche dei boschi che sovrastavano il centro abitato, con la malcelata ambizione di reperire notizie sui paleoinsediamenti di creature pensanti nella zona. Io seguivo il procedere delle esplorazioni con giustificato interesse e, quando si sparse la notizia del ritrovamento di resti umani in una delle più profonde forre del bosco di Bisaccia, iniziai seriamente a preoccuparmi.
I resti consistevano in un corpo che sembrava essere precipitato da una delle tante voragini che si aprivano nel folto del bosco a un livello superiore.
Il cadavere era irriconoscibile e totalmente degradato, ma nonostante il pessimo stato di conservazione non fu difficile capire che non si trattava di un nostro antenato del paleolitico superiore, bensì di un essere umano dei nostri tempi, ancora rivestito da abiti pesanti di foggia moderna. Poi, esaminando i resti, fu chiaro anche il nome del morto, visto che non avevo avuto di frugare bene nei suoi abiti e così non avevo trovato, ben nascosto in una tasca interna, lo scontrino di una lavanderia in cui il cognome del proprietario era chiaramente segnato.
Un giovane e ambizioso funzionario siciliano, un certo Santo Scuderi, riaprì le indagini. Uno di quelli furbi come solo gli isolani sanno essere, a causa dei secoli in cui intere generazioni etnicamente ibride hanno avuto il tempo di affinare il proprio intelletto e di indirizzarlo alla ricerca dei modi migliori per sopravvivere e per eccellere sulle masse beote che vivono stolide e inconsapevoli nel continente.
Mi ero preoccupato di non lasciare tracce sul luogo del delitto, avevo fatto sparire nella più vicina discarica abusiva le gomme dell’auto e i vecchi stivali, avevo bruciato i documenti di Bruno e ne avevo fatto sparire la cenere nell’immondizia, insieme a quel po’ di foglie e ciottoli insanguinati che avevo portato via dal bosco, ben avvolti nella plastica, ma non ero riuscito a liberarmi del fucile.
Avevo pensato di gettare il mio fucile da caccia insieme con il corpo, ma sarebbe stato come firmare il delitto, se nella più sciagurata delle ipotesi il cadavere fosse stato ritrovato. D’altra parte, era a conoscenza delle autorità di PS il mio possesso di un’arma, perfettamente legittimo per l’uso che ne dovevo fare, e mi sarei trovato in difficoltà se ne avessi dovuto denunciare la scomparsa.
Il giovane e rampante magistrato cominciò a interrogare amici e conoscenti del morto e in particolare i suoi colleghi di università, tra i quali qualcuno doveva aver avuto un qualche interesse a sopprimere quello sfortunato giovanotto.
Andai a trovarlo, convocato da lui, al palazzo di giustizia. Era naturale che cercasse di trovare il bandolo della matassa tra tutte le persone che avevano conosciuto Bruno e che cercasse di farsi un’idea sul possibile movente di quello che pareva un omicidio, forse involontario, forse dovuto a un incidente di caccia, accompagnato da un occultamento di cadavere. Ma vedo ancora adesso il suo occhio fisso su di me, pronto a esaminare e analizzare tutti i miei movimenti del viso e del corpo, come per trovare tracce di un disagio che rivelasse la mia colpevolezza.
La presenza nella nostra città di quell’odioso inquisitore, dallo sguardo penetrante e pieno di sarcasmo, mi disturbava non poco.
Proprio quando avrebbe potuto dare la caccia ai tanti ladri di denaro pubblico che causavano danni molto maggiori di quelli che io avevo potuto generare uccidendo un singolo e moralmente discutibile ragazzaccio, quella specie di segugio pensava di costruire la sua carriera sulle trappole nelle quali sperava di farmi cadere. Capivo che sarebbe bastato un ordine di perquisizione per trovare in casa mia il fucile con cui Bruno era stato ucciso.
Naturalmente corsi ai ripari e trovai un appoggio in un vecchio amico che era stato eletto al Consiglio Superiore della Magistratura.
Il magistrato mi accolse fraternamente e dimostrò di comprendere il mio sconcerto per l’atteggiamento sospettoso e inquisitorio tenuto dallo Scuderi.
« Ma come è possibile dubitare di una persona del tuo valore scientifico e della tua dirittura morale? Lo scuso solo perché non ti conosce come noi ti conosciamo ».
Il suo tono era lievemente untuoso e capivo che se non fossimo stati tutti anelli di una stessa catena il suo comportamento sarebbe stato molto diverso, ma non ero in grado di prestare attenzione alle sfumature del discorso. Dovevo accontentarmi di quella chiara manifestazione di favore, senza preoccuparmi del fatto che fosse sincera o meno, e assicurare da parte mia la più totale collaborazione al mondo con cui ero da tempo in contatto e che dominava me come il magistrato che aveva il potere di decidere della qualità della mia vita futura, quel mondo sommerso che plasmava e articolava la storia secondo una logica superiore e in conformità con le leggi universali cui tutti obbedivano.
Il giorno dopo il caso fu sottratto allo Scuderi, che venne addirittura trasferito con effetto immediato a casa sua, in Sicilia, come aveva chiesto da tempo, e quindi non aveva nemmeno motivo di ricorrere, né di protestare in qualunque altro modo. Il vecchio magistrato incaricato dell’inchiesta sulla morte di Bruno finì per archiviare il caso come incidente di caccia ad opera di ignoti.
Ma se ero riuscito a superare i pericoli dell’inquisizione di Stato, non potevo avere la stessa fortuna nell’ambito familiare.
Nicoletta non poteva vivere col sospetto che io fossi implicato nella scomparsa o per meglio dire nell’omicidio del suo fidanzato. Non credo che avesse mai pensato a una mia reale e diretta implicazione in quella sparizione misteriosa, ma il ritrovamento del cadavere in quella buca segreta, in un bosco che io conoscevo così bene e che avevo anche frequentato insieme a lei, doveva aver sollevato quel velo d’incoscienza che noi spesso stendiamo sui pensieri scomodi e l’aveva spinta a riflettere. Ora cominciava forse a vedermi entro una nuova luce, o piuttosto avvolto da un’ombra inquietante.
Da un lato diventavo oggetto di una cupa attrazione, ma dall’altro ero anche fonte di paura e insicurezza. Di cosa non sarei stato capace, dopo aver percorso già le strade del delitto? E lei aveva avuto con me due figli, che la legavano in maniera indissolubile al mio destino, almeno così sembrava.
Ricordo la sera in cui Nicoletta sembrò riscoprire la passione. Fuori c’era vento forte e pareva che tutte le forze della natura si fossero unite per scatenare un tempo da tregenda. Anche lei appariva come dominata da una forza diversa: era misteriosa e affascinante come solo le donne sanno diventare quando il desiderio le spinge a esercitare tutte le arti della seduzione. Aveva indovinato tutto, dalla pettinatura allo spacco della gonna, al cerchietto in pelle che le ornava la caviglia, allo smalto scuro che esaltava la perfezione dei piedi. In quel momento avevo ritrovato intatto tutta la mia esaltazione e non mi pentivo, no, mio Dio, non riuscivo a pentirmi di quello che avevo fatto per lei, spinto da un sentimento che ora sentivo di poter definire, senza finzioni, come gelosia.
Il mattino dopo, al mio risveglio, Nicoletta era scomparsa. Se n’era andata senza fare rumore, mentre io dormivo sereno e soddisfatto, perché anche i professori, come tutti gli altri animali, giacciono inebetiti dopo una notte di sesso e si svegliano tardi, e cercano di recuperare uno stato di coscienza sufficiente a comprendere i fatti della vita.
Mi chiamò al telefono, da Londra. Aveva organizzato la sua fuga senza far trapelare nulla. Doveva essersi impegnata molto per trovare una soluzione. Così aveva messo insieme i suoi titoli ed era riuscita a trovare un posto all’UCL Philosophy Department. Si mise in comunicazione con me solo dopo aver iniziato a lavorare. Forse temeva una mia reazione, che invece non ci fu. Ormai ero tornato ad essere una persona totalmente razionale; cosicché, quando si presentò da risolvere il problema dei bambini, che pensavano che la mamma fosse partita solo per qualche giorno, non mi opposi alla richiesta di Nicoletta di tenerli con sé a Londra. Sapevo che sarebbe stata la cosa migliore per loro: avrebbero frequentato scuole inglesi e avrebbero fruito di una formazione migliore di quella che l’Italia era in grado di offrire, apprendendo l’inglese come lingua madre; inoltre la mamma era disposta a occuparsene molto più di me, che avrei finito per considerarli come una sorta d’impedimento per la mia vita sociale e, perché no, sentimentale. Così, incredibilmente, dopo un periodo di azione tempestosa, tornavo a riposare in un lago calmo, preparandomi ad affrontare quella che si preannunciava come una serena vecchiaia. Da quel momento ho imboccato la strada di una vita da single, confortata dalla ricerca filosofica e dagli scritti che ne esponevano i risultati, tra convegni e articoli, tra libri e riviste e senza emozioni diverse da quelle della vita quotidiana. Vivo in una discreta agiatezza e, fino a poco tempo fa, senza grosse preoccupazioni. Poi, all’improvviso, come succede a molti, la consapevolezza di non essere immortale è diventata una notizia certa. Bastano poche righe di un referto, su carta intestata di un centro diagnostico, e il gioco è fatto: ora ho anch’io, come tutti i prodotti, una data di scadenza, e questa data è molto vicina.
Mi rendo conto che devo concludere questa, che non è una vera confessione, né un vero giornale privato, anche perché la mia cultura, la maledizione dell’intellettuale, sta prendendo il sopravvento sull’innocenza della scrittura, senza la quale non c’è diario, non c’è autenticità, ma solo trasposizione letteraria; però è l’unico modo che conosco per raccontare una storia che in qualche momento è stata forse solo un po’ più drammatica di tante altre storie, ma come chissà quante altre è rimasta nascosta per decenni: storie di sopraffazione, d’inganno, di violenza e di vittoria; sì, di vittoria, parziale e temporanea, nella perenne lotta in cui siamo coinvolti, che è poi in definitiva la lotta per la vita.

(Concluso l’8 giugno 2012)

Una risposta a Il professore

  1. Johna196 ha detto:

    It’s a mammoth playground built of mountains, hills, lakes, rivers, valleys, woodlands,and beaches. dgkcebfacbba

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