Ostrob

Il territorio dei Nenec o Nenci era una delle mete che Julien si prefiggeva di visitare. Non sapeva perché, ma era come se una forza sconosciuta lo indirizzasse verso quella gelida regione: un’area ancora vergine, sui percorsi fluviali del grande Nord. In qualità di membro della Società francese di Archeologia, era sempre riuscito a soddisfare le sue più profonde curiosità in altre parti del mondo, ma la Siberia artica pareva irraggiungibile ed era in cima ai suoi desideri da tempo.
Prima di tutto occorreva un’autorizzazione delle autorità russe, che pareva essere sempre sul punto di arrivare e non arrivava mai. Era come se le collaborazioni scientifiche dipendessero dai rapporti che di volta in volta venivano a crearsi tra Federazione russa e Unione europea. I sorrisi e la disponibilità degli ambienti accademici si spegnevano ad ogni imposizione di sanzioni internazionali, alle quali Mosca non dava poi troppa importanza, ma che finivano per ostacolare e ritardare qualunque iniziativa di studio e lavoro comune.
Quando finalmente l’autorizzazione giunse a Parigi, rimaneva pochissimo tempo per organizzare la spedizione. Julien era preparato da un bel po’. Qualche problema lo avevano invece gli studiosi come me, che erano stati avvisati all’ultimo momento e che dovevano preoccuparsi di aggiornare in tempo l’attrezzatura e di raggiungere San Pietroburgo, dove il gruppo aveva stabilito d’incontrarsi prima di affrontare le difficoltà di un viaggio al Nord, nel Circondario Autonomo dei Nenec.

Da San Pietroburgo ci muovemmo verso nord-est, per arrivare a Nar’jan Mar, capoluogo del circondario e ultimo ambiente civilizzato, provvisto di abitazioni e alberghi.
La spedizione doveva spostarsi lungo il fiume Pečora, fino a incontrare il sito nel quale erano stati effettuati i primi saggi di esplorazione e il carotaggio del terreno e dove era stata costruita una prima elementare base in legno. Una palizzata delimitava il terreno interessato dalle operazioni di scavo.
Attorno alla base il terreno era diventato una distesa nerastra e acquitrinosa da cui, per fortuna, l’acqua del disgelo defluiva, unendosi in vari rivoli che scendevano verso il fiume.
Il nostro gruppo comprendeva i colleghi russi, tre operai e due assistenti di scavo, diretti dall’archeologo Vladimir Gončarov. A questi si univano tre francesi, Julien Després e una giovane archeologa, Blanche Roussel, coadiuvati dal tecnico Tavette. Io rappresentavo la ricerca italiana, insieme al fotografo Gianfranco Ghisleri, che aveva il compito di documentare l’intera campagna.

Il team che si occupava degli scavi svolgeva nel circondario un programma limitato dalle condizioni climatiche. C’erano solo due settimane di tempo, prima che il terreno riprendesse a gelare. Perciò in quelle due settimane bisognava effettuare lo scavo, creare le strutture di mantenimento in legno e augurarsi che riuscissero a resistere al nuovo inverno, per poter proseguire il lavoro l’anno successivo.
Era curioso l’assortimento del gruppo. Io, bruno di capelli, ma dalla carnagione pallida, mi distinguevo dal fotografo, scuro anche per la sua frequentazione di siti mediterranei. Després era castano scuro e piuttosto spigoloso nel volto e nel carattere. I russi andavano dal rossiccio e corpulento Gončarov al bruno slavato degli operai, al biondo baltico degli assistenti.
Infine Blanche, per fare onore al suo nome, era di carnagione molto chiara e quasi si confondeva nel biancore che insisteva sul terreno più vicino all’Artico, dove le nevi non si erano sciolte. Non aveva un viso da madonna raffaellesca, ma piuttosto esprimeva la struttura decisa del fisico delle donne della Francia del Nord. Gli occhi chiari erano piuttosto grigi che celesti e i capelli di quel biondo tendente leggermente al rosso che ho sempre ammirato nelle mie amiche francesi. Avevo già conosciuto Blanche in un’altra occasione, durante una vacanza in Sardegna. La sua immagine era molto diversa da quella che poteva offrire durante una campagna di scavo nella tundra. Rappresentava un tipo di donna che mi aveva sempre affascinato: un fisico magro ed elegante, da signora della buona borghesia, capelli lisci e la capacità d’indossare qualunque camicione informe come se fosse un capo di haute couture. Viso allungato e serio, che sapeva scoppiare all’improvviso in un sorriso inatteso. Era affascinante anche nella sua versione selvaggia e lievemente abbronzata, a piedi nudi sugli spiazzi terrosi o sulla sabbia. Era andata via troppo presto, quella volta, per poter sviluppare meglio un’amicizia.

I primi saggi e i carotaggi sul sito avevano fornito risultati incoraggianti e si presumeva di ottenere quelle certezze che solo la presenza di manufatti può offrire alla scienza.
Iniziammo subito il lavoro, per poter individuare e liberare i primi strati, scendendo di vari metri, fino a incontrare le strutture e i reperti che si presumevano esistere nel sottosuolo. Il terreno in profondità era ancora molto duro e i lavori procedevano a fatica, ma già dopo la prima settimana potevamo valutare i risultati e confermare ipotesi.

Facevamo brevi pause per consumare un pasto ridotto, ma sostanzioso.
Durante una di queste pause ammiravamo l’infinita distesa bianca che si stendeva a nord, illuminata dal sole basso sull’orizzonte, e notammo che pochi chilometri più in là si ergevano le forme a cono di un accampamento, da cui si levava il fumo delle cucine.
Nell’aria ferma si sentì arrivare l’eco del suono del penser, il magico tamburello degli sciamani. Lo seguì un canto formato da poche note: un tema semplice, che proprio per la sua essenzialità si fissava nella mente come un’ossessione.
Circa un’ora dopo gli operai ci avvisarono che un uomo si aggirava nei dintorni del nostro sito come se volesse studiare le nostre azioni. Non vi avevamo fatto caso, impegnati com’eravamo nello scarico delle attrezzature e nell’organizzazione della struttura di ricerca.
Vado a parlargli, disse Julien.
Conosci la sua lingua?, gli chiesi.
Solo qualche parola, ma loro parlano un po’ di russo.
L’uomo era vestito alla maniera dei popoli delle zone artiche, portava con sé il penser e alcune vestigia animali. Doveva trattarsi di un tatibè, lo sciamano della tribù che si era accampata con le sue renne poco più a nord del nostro sito.
Parlava con Julien in un russo elementare, ma si rivolgeva anche agli altri membri della spedizione.
Dovete andar via da qui, disse il samoiedo. Qui sono presenti le anime dei miei antenati. Non vogliono che il terreno sia contaminato dagli stranieri.
Noi facciamo ricerche per l’università, siamo autorizzati dal governo.
Lo sciamano non si scompose.
Noi siamo accoglienti con chi viene da lontano, ma gli spiriti vogliono che siano rispettati i luoghi sacri.
Sapevo che i Nenec spesso non seppellivano i morti, ma lasciavano i corpi alla natura, dove si decomponevano lentamente nel fango della tundra. Però forse non tutti i gruppi si comportavano allo stesso modo.
Non portate i vostri morti nell’isola di Vajgač? Chiese Julien.
Sì, ora i morti li mandiamo a nord, dove finisce la vita, ma qui una volta si trovavano i nostri padri, nella terra dove avevano costruito le loro case.
Vivevate qui, per tutto l’anno?
Sì, una volta qui c’erano alberi e case di legno.
Quello che lo sciamano raccontava era confermato dai nostri ritrovamenti. Il sito su cui stavamo lavorando esprimeva una realtà lontana da quella attuale. Era probabilmente un antico insediamento di popoli stanziali, perché quella che incominciava ad apparire era la struttura di un villaggio costituito da case di legno e un’area ricordava una vera e propria necropoli, in cui i defunti erano sepolti in grandi casse lignee, fissate al suolo con pali su cui si affiggevano teschi di renna. Esistevano quindi una volta dei popoli stanziali, che non vagavano per la tundra assieme alle renne. Il clima doveva essere meno gelido, tanto da consentire agli alberi, di cui avevamo reperito i resti, di crescere e svilupparsi.
Sono ancora qui gli spiriti?, chiese Julien.
No, ora stanno a Ostrob.
E dove si trova Ostrob?
Alle radici del vento.
Istintivamente guardammo verso Sud-Ovest, da dove giungeva l’aria umida e portatrice di neve e pioggia che rendeva meno gelido il clima delle terre che si affacciavano sull’Artico. Da lì arrivava il soffio della vita.
Anche lo sciamano mosse il braccio per indicare l’Occidente. Laggiù, da qualche parte, doveva trovarsi quella città sconosciuta, di cui non esisteva traccia sulle carte geografiche. Eppure doveva trattarsi di un luogo abitato da tempo immemorabile, come ci raccontò l’uomo. Da quel luogo erano giunti gli antenati, che si erano spinti, con i cani e con le renne, fino agli ultimi lembi di terra prima del grande mare di ghiaccio che giungeva fino al Polo Nord.
Malgrado le avvertenze dello sciamano, proseguimmo col nostro lavoro. Blanche pareva la più impegnata: serissima e meticolosa, registrava e classificava. Gli operai scavavano con impegno e mettevano in sicurezza le pareti. In altri due giorni raggiungemmo uno strato molto più antico di quelli che avevamo indagato. Il tempo e la luce erano sempre uguali. Nessuno poteva prevedere la tempesta che avrebbe sconvolto i nostri piani, accorciando la nostra permanenza nel sito.
Dormivo, e probabilmente avveniva lo stesso per i colleghi francesi, mentre gli operai russi diretti da Goncarov osservavano il loro turno di guardia. Improvvisamente fui svegliato da un rumore violento e aprendo gli occhi non vidi altro che un diffuso biancore.
Dpo qualche secondo, nella caligine che rivestiva l’orizzonte, cominciò a delinearsi una struttura appena definita. Non si capiva bene se si trattasse di una costruzione umana o di un accatastarsi di fiocchi di nubi. Conoscevo bene l’aspetto del ciùm, una capanna conica, a sezione circolare, costituita da una serie di pali flessibili che si accostavano nella parte superiore così da formare una sorta di cupola, aperta in alto per lasciar uscire il fumo del focolare. In basso un’altra apertura fungeva da porta. I muri di quella specie di casa erano costruiti con pelli di renna cucite insieme o da foglie di betulla. Ebbene: la mia impressione, nell’osservare con maggiore attenzione quel che appariva in lontananza, guardando verso occidente, fu di trovarmi di fronte a un palazzo fatto di ciùm. Fu un’impressione chiara, ma solo per un attimo. Dopo quell’attimo già l’immagine aveva acquisito toni sfocati, come se avesse voluto rivelarsi solo per un attimo, manifestandosi per quello che non era, ma che avrebbe potuto essere.
Non fui l’unico a vedere il palazzo. Anche i colleghi erano stati svegliati dallo scoppio della tempesta e erano stati sorpresi da quella fuggevole ma affascinante visione.
Là… Ostrob, gridò Julien.
Il cielo andava facendosi sempre più scuro e sul grigio fuliggine di quel cielo, in piedi, vidi Blanche, coi capelli scomposti agitati dal vento, che guardava anche lei verso l’ovest. A pochi metri da me, a piedi nudi sulla terra nera, vestita di un lungo camicione bianco, fissava, come colta da un incantamento, quel qualcosa che dal nulla era apparso e che nel nulla stava per tornare.
In quel momento una voce tuonò. Era quella di Gončarov, che urlava: Venga giù di lì. Fui io a slanciarmi verso Blanche e a strapparla dal suo sogno. Lei si scosse e si lasciò portare al coperto, in quella struttura robusta che avevamo creato per proteggere i reperti e le nostre provviste dalle intemperie.
Poco dopo si scatenò il finimondo. Lampi, fulmini, scrosci d’acqua. La natura rivelava il suo volto più ostile. Fu forse una tromba d’aria quella che investì il campo. Si sentiva il rumore dei pali sradicati, delle macchine spostate e rovesciate, degli oggetti che sbattevano tra loro prima di essere trascinati via dalla furia del vento.
Mi ero rifugiato insieme a Blanche in uno spazio che sembrava sicuro. Sopra di noi pareva che dovesse arrivare la fine del mondo e, come se fossi in attesa della fine, mi venne spontaneo stringere a me la donna di cui subivo il fascino. Volevo che l’ultima cosa che avrei fatto sulla Terra fosse quella che più desideravo, e che non avrei mai fatto se quel imprevisto non me ne avesse fornito l’occasione. Lo spazio in cui ci trovavamo distesi era strettissimo e, in quell’atmosfera da catastrofe imminente nulla era più naturale che liberare il desiderio e insieme la comunione d’intenti, il senso di protezione reciproca, la forza che ci spinge a sopravvivere e a superare quella divisione dei corpi che c’impedisce di trasformarci in un’unico essere, in un unico pensiero.
Il bello fu che lei rispose al mio abbraccio e anzi girò il viso verso di me, come per invitarmi. Fu per questo che la baciai e fu il bacio più profondo e sincero della mia vita. Sono sicuro che anche lei in quel momento pensava che quelli potevano essere gli ultimi attimi del nostro tempo. La temperatura si era abbassata di colpo e stare addossati l’uno all’altro, più che un atto d’amore, poteva essere interpretato come difesa dal gelo. L’acqua penetrava insidiosa nel nostro rifugio e saremmo probabilmente annegati, se la tempesta, dopo aver scaricato valanghe d’acqua e turbini d’aria, non avesse esaurito la propria violenza e non si fosse dissolta nel nulla. Ci staccammo quasi malvolentieri e risalimmo in superficie, sentendoci a disagio, per aver creduto che tutto stesse per finire e per aver sognato un sentimento che forse era solo nato dal disperato tentativo di andare oltre, dimenticando le convenienze e le ipocrisie.
Insieme a noi riapparvero i colleghi, che si felicitarono con noi, vedendoci salvi e in buona salute, anche se fradici e infreddoliti. Per fortuna, avevamo vestiti di ricambio conservati sotto vuoto, al riparo dall’acqua, e li indossammo. I dati erano già stati trasferiti sul cloud del progetto di scavo, sul server di Parigi, e i reperti materiali erano al sicuro in un deposito in cui l’acqua non era riuscita a penetrare.
Se il lavoro svolto fino a quel momento era stato salvato, lo stesso non poteva dirsi delle strutture esterne del sito. Protezioni e palizzate erano stati divelti e il legname probabilmente si era disperso nella vasta pianura, dove il bianco del ghiaccio era stato sostituito fin quasi all’orizzonte dal cupo colore della terra. Ci sarebbe voluto troppo tempo per risistemare lo spazio abitativo e gli stessi spazi comuni. Solamente la parte più alta e solida, che i russi avevano costruito con i criteri del bunker usando cemento armato al posto del legno, era ancora agibile e non era sufficiente per consentire all’intera spedizione di vivere e lavorare. Il tempo inoltre non prometteva nulla di buono. Le previsioni parlavano di instabilità diffusa, il che significava che avremmo dovuto attenderci ulteriori tempeste e distruzioni. Decidemmo pertanto, noi francesi e italiani, di accontentarci dei risultati ottenuti fino a quel momento e di intraprendere la strada del ritorno.
Fu allora che Julien propose di percorrere la strada che andava verso sud-ovest, allontanandosi dal Pečora e dalla costa dell’Artico. L’intenzione era quella di esplorare quel territorio che non avevamo ancora conosciuto e nel quale era apparsa la strana visione che pensavamo fosse la mitica città di Ostrob.
Chiedemmo notizie a Gončarov, che ci assicurò dell’esistenza e della praticabilità di una strada che ci avrebbe condotti fino agli Urali e da lì fino a Mosca. Bisognava seguire il percorso che puntava a ovest, per poi iniziare a scendere in direzione sud-ovest. Lungo la strada avremmo trovato insediamenti umani e stazioni di servizio, per fare rifornimento di carburante e di viveri. Non aveva però notizie di una città chiamata Ostrob, che pensava fosse un’invenzione del tatibè o, al massimo l’accampamento mobile di qualche popolo della tundra. Julien invece non decampava dalla sua convinzione che attribuiva un’esistenza reale a quell’insediamento leggendario.
Il meccanico della spedizione russa risistemò nei limiti del possibile i nostri veicoli danneggiati dalla tormenta. Qualcuno si era rovesciato su un lato ed era stato necessario raddrizzarlo, per poterlo rimettere in funzione.
Ci mettemmo in viaggio l’indomani e procedemmo verso ovest per alcune verste, poi il terreno umido, scuro e pianeggiante ci abbandonò e ci trovammo immersi in un bosco che si faceva sempre più fitto e scuro.
Il terreno iniziava a salire, almeno questa era la nostra impressione.
Era un bosco di conifere, che più a sud erano in parte sostituite dalle betulle e da altre essenze proprie di climi più temperati. Naturalmente, non eravamo in grado di vedere cosa ci fosse al di là di quella boscaglia formata da alberi fitti e sottili che ricopriva tutto lo spazio da percorrere. La salita ora era più avvertibile e impegnativa. I nostri mezzi avanzavano su un terreno collinare, ricoperto dal ghiaccio o dal pacciame degli abeti, da cui emergevano qua e là rocce candide e tronchi tagliati di netto con una sega a motore, segno della presenza invadente dell’uomo. La strada, in quel punto, era diventata una specie di sentiero, sul quale i nostri mezzi di trasporto transitavano con difficoltà. La neve, ancora presente a tratti, era segnata dai solchi formati dai pneumatici, da cui traspariva l’oscurità della terra.
Julien era convinto che Ostrob, qualunque cosa fosse, si trovava al di là degli alberi. Blanche non era ben sicura, invece, che quella città fantasma non fosse una sorta di miraggio e io mi stavo avvicinando all’idea di Gončarov, che aveva ipotizzato l’esistenza di un accampamento mobile, che i samoiedi consideravano come una vera e propria città.
Ci fermammo per riposare, in uno slargo tra gli alberi. Noi avremmo anche proseguito, ma non era il caso di sottoporre le macchine a uno sforzo eccessivo. Speravamo poi di trovare un punto di rifornimento al di là degli alberi, una volta superata la collina. La visibilità era scarsa, ulteriormente ridotta dall’oscurità degli alberi e del sottobosco. Dopo aver dormito per qualche ora, decidemmo di andare in esplorazione, a piedi, per capire cosa ci attendesse al di là della collina.
Fu così che finalmente scorgemmo qualcosa.

Una forma chiara e indistinta era apparsa nel cielo opaco, simile a quella che avevamo intravisto poco prima dell’uragano che ci aveva costretto a concludere anzi tempo la nostra campagna di scavi.
Questa volta però era molto più vicina, tanto da rendere visibili numerose figure nere, che balzavano da un punto all’altro della struttura, veloci come aerei, guizzanti come motoscafi.
Il nostro fotografo fu attratto dalle strane immagini che vedeva e si allontanò in direzione di quella specie di città, cercando di filmare tutto quello che si poteva.
Si era messo in ginocchio, per effettuare una ripresa, quando qualcosa di scuro, una presenza venuta dal nulla, gli balzò addosso, per scomparire subito dopo.
Corremmo verso il nostro Gianfranco, che era rimasto a terra immobile, ma quando fummo vicini capimmo che qualcosa di orribile era successo. Il fotografo stava disteso, immerso in una pozza di sangue. Quell’essere venuto dall’ombra gli aveva tagliato la gola.
La fotocamera! Gridò Després, è scomparsa!
Di qualunque genere fossero gli esseri che abitavano Ostrob, appariva chiaro che non solo non volevano essere disturbati, ma che non gradivano neppure che si diffondessero testimonianze sulla loro esistenza.
La cosa più strana fu che la bianca struttura, così com’era apparsa, improvvisamente svanì, senza che ce ne accorgessimo nemmeno, intenti com’eravamo nel cercare di prestare inutilmente aiuto al nostro compagno. Ricordo che, nell’alzare lo sguardo a quello spazio libero da vegetazione, al di là della collina su cui ci eravamo arrampicati, vidi solamente terra, neve ed erba. Qualunque cosa fosse quell’immagine: città o covo di fantasmi, non ve n’era più traccia.
Chiamammo subito Gončarov, per raccontare la terribile avventura che ci aveva colpiti e lui ci consigliò di tornare indietro, per affidare alle autorità russe il cadavere di Ghisleri.
Avremmo detto che il fotografo era stato ucciso da un orso, cosa non infrequente nel territorio che stavamo percorrendo. Nessuno desiderava indagare sulla presenza di un popolo sconosciuto e aggressivo, sulla cui esistenza qualcuno favoleggiava. Il fotografo sarebbe stato sepolto nel sito in cui si stava procedendo allo scavo e il suo corpo si sarebbe unito a quello degli antichi uomini che in quello stesso luogo erano vissuti e in cui avevano trovato sepoltura.

Decidemmo di abbandonare immediatamente quella strada infausta e di sottrarci al fascino mortale di Ostrob. D’altra parte, il tempo stava nuovamente peggiorando e non ci sembrava il caso di avventurarci in terre sconosciute. Fummo io e Blanche a dirigere le operazioni per il ritorno, mentre Julien, quasi impietrito per il tragico esito della spedizione, sembrava sempre più assente e incapace di intrattenere rapporti umani.
Al campo trovammo la polizia, che prese in consegna il cadavere di Ghisleri e valutò che la ferita che l’aveva ucciso era compatibile con l’attacco da parte di un orso. Gli orsi bruni siberiani sono aggressivi come i grizzly e non era difficile incontrarne uno nelle aree boscose e poco frequentate dagli uomini. I poliziotti ci accompagnarono fino a Nar’jan Mar, dove trascorremmo un’intera giornata a raccontare la nostra versione dell’incidente e a firmare carte. L’atteggiamento delle autorità fu comunque benevolo. Fummo solamente rimproverati per la nostra imprudenza. Quella che stavamo attraversando prima della disgrazia era una zona quasi inesplorata e avremmo dovuto affrontare quegli immensi spazi con maggior cautela e con la protezione di guardie armate.
Così, dopo mille altre raccomandazioni, ci consentirono di lasciare il territorio dei Nenec, le sue case basse e i suoi alberi gialli, e di riprendere il cammino per la Russia.
Dopo vari giorni di cammino, la nostra spedizione si sciolse formalmente a San Pietroburgo e ognuno pensava a organizzare il ritorno verso il suo paese. Qui però accadde qualcosa d’imprevedibile. Julien, che era rimasto sempre teso e taciturno durante tutto il viaggio, improvvisamente ci comunicò che non sarebbe tornato in Francia. Non poteva rinunciare a risolvere un mistero. La sua passione per la conoscenza glielo vietava. Sarebbe rientrato in Siberia alla ricerca di soluzioni, anche se presto il clima sarebbe divenuto inclemente. Aveva intenzione di chiedere aiuto agli abitanti del luogo, per non affrontare da solo il popolo di fantasmi che aveva intravisto nella mitica città di Ostrob.

Quanto a Blanche, il mio rapporto con lei si era ricondotto entro una tranquilla sfera professionale e anzi entrambi ci sentivamo a disagio per aver perso il controllo nella maniera più stupida: non era il nostro un atteggiamento degno di persone razionali, né di studiosi affidabili. Tornammo quindi nelle nostre città con qualche incertezza in più e forse con un po’ di rimpianto.
Io continuo però a pensare alla mia collega francese e sogno che per noi ci sia un’altra e meno dolorosa occasione d’incontro. Spero solo che quest’occasione si presenti presto, in un ambiente meno ostile, e che si riesca insieme a superare l’imbarazzo di un’esperienza inusuale e drammatica, come quelle che si attraversano talvolta, quando si tocca un confine, tra vita e morte, tra realtà e sogno.