Liberi di non lavorare?

Nel 1986 ho avuto il piacere e l’onore di leggere, ancora in bozze, un libro di Antimo Negri, I tripodi di Efesto, che faceva il punto, allora, a metà degli anni Ottanta, sullo stato e le prospettive del lavoro umano, in una società che già si definiva postindustriale. Ho ripreso in mano il volume e ne traggo spunto per proseguire la discussione, iniziata pochi giorni fa, sulla fine del lavoro, come possibile approdo dell’esperienza terrena dell’uomo. Molti sono i passi sui quali si potrebbe riflettere.

Leggo ad es. a p. 31:


La potenza “esoneratrice” della tecnica, però, ha prodotto e produce un “tempo libero” che è, come si è visto, senza i paraocchi di una retorica tecnologicistica, “disoccupazione strutturale”. Né quella del “disoccupato strutturale”, comunque “assistito” o forse proprio perché “assistito”, può dirsi una condizione paradisiaca: non c’è paradiso dove c’è emarginazione, frustrazione di un’ “assistenza “ ricevuta come un’elemosina, disperazione di un ozio che depaupera esistenzialmente, dissipazione di un “far niente” che non è neppure “dolce”, se finisce col comportare anche fughe nei paradisi artificiali della droga ed esili antimetropolitani che valgono errori dello spirito.

È questa dunque la strada per ritrovare il paradiso perduto?

È possibile trasformare questa disoccupazione forzata di massa nell’ambito di una società in cui, non esistendo più un lavoro salariato, diviso, necessario per vivere, ci si orienti verso l’attività, il lavoro libero?

Si tratta di un lavoro che, come sostiene Marx nei Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie, può non essere “un puro divertimento”, in quanto un lavoro realmente libero” può essere “lo sforzo più intensivo che ci sia”, però è comunque un impegno volontario svincolato da qualsiasi obbligo, in quanto non remunerato.

È realistica la visione di Schiller di un’umanità che ha lavorato perché “la generazione futura in beato ozio potesse attendere alla sua salute morale e sviluppare la libera crescita della sua umanità”?

(Friedrich Schiller, Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen).

Non si realizzerà invece una società in cui una maggioranza di emarginati, retta da pochi ricchi oligarchi assistiti da una schiera, più o meno nutrita, di tecnocrati ben retribuiti, non avrà più né l’obbligo né l’opportunità di lavorare e considererà questa condizione, supportata da una retribuzione ai limiti della sopravvivenza, non come un ritorno all’Eden ma come un ingresso a una sorta di inferno in terra?

Nella realtà dei nostri tempi, quella che era un’utopia e una rivendicazione, la liberazione dal lavoro diviso, diviene invece un’imposizione del sistema, un’esigenza dell’apparato produttivo. Già oggi il lavoratore che ancora non ha perso la sua occupazione viene spesso vilipeso in quanto inutile e soprannumerario.

Come considererà la sua esistenza questa maggioranza non più impegnata in un lavoro necessario? La considererà come chômage, che implica il concetto di ristoro dalla fatica, o come unemployement (o Arbeitslosigkeit), in cui prevale il senso di mancanza?

Tutto dipenderà dal valore che sarà attribuito nella nuova società al denaro e ai beni materiali acquistabili e di conseguenza alla qualità della vita (qualità percepita più che qualità assoluta) in quella società.

Resta inteso che quella maggioranza di non scienziati e non tecnici non potrà chiedere e ottenere di essere integrata in un lavoro reale e produttivo come scienziato o tecnico, in quanto non ha le abilità necessarie, potrà invece cercare di ottenere il riconoscimento di attività diverse da quelle tecnologico-matematiche come attività di interesse sociale e pretendere che i matematici non si organizzino in casta economicamente superiore, schiacciando i non intellettuali e gli intellettuali non matematici.

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