Alberi

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Alberi

Davanti a lui si palesavano ampie distese verdi, ripartite da rigoli d’acqua in figure geometriche appena identificabili, dove sorgevano a volte alberi e arbusti improvvisi, come a ricordare che non tutto è mai perfettamente regolare e prevedibile e che, al di là delle leggi e delle statistiche, si manifesta, inquieto e incoercibile, il caos, forse anch’esso dominato da leggi, solo meno evidenti e più difficilmente estrapolabili dalla realtà fenomenica.
Era strano per Fabrizio addentrarsi in un’area sconosciuta della Val Padana, in compagnia della sua nuova amica irlandese. Era uno dei suoi tanti giri immotivati, senza obiettivi e senza regole, in una ricerca affannosa di qualcosa d’indefinibile, di qualcosa che aveva sempre aleggiato sulla sua vita senza manifestarsi, senza apparire: un bisogno di certezza, di serenità, che lo trasportava angosciosamente, in un procedere falenico, verso esperienze continue e imprevedibili, che finivano al contrario per allontanarlo, costantemente e irrimediabilmente, dal suo sogno di una limpida e placata accettazione del mondo.
Più in là, dove l’uomo aveva fatto pesare la sua impronta sulla natura, serie di alberi si radunavano a gruppi, formando una sorta di piccolo bosco, disposto in maniera troppo regolare per essere spontaneo.
« Bello! » disse Rowena, con quel suo strano accento, melodioso come un suono antico, « non ho mai visto un verde così. » Lui si chiese se ci fosse dell’ironia in quella sua ammirata asserzione, ma gli parve che la sua considerazione fosse sincera. Anche se lei proveniva da un paese in cui il verde era colore dominante, era probabile che quelle piante così perfettamente organizzate, con quei colori che parevano inventati da un pittore, avessero un aspetto diverso da quello che le era abituale.
Dall’altra parte della strada c’era un rialzo con dell’erba gialla ormai essiccata da giorni e che pareva pettinata da una forza oscura. Proseguendo, guardando dal basso verso l’alto, si comprendeva che il rialzo, con il suo contenuto di terra e vegetazione, accompagnava una strada sopraelevata.
In lontananza, una boscaglia di un verde scurissimo era sfumata vicino al suolo da una sorta di bruma.
Fabrizio rimise in moto l’automobile e si mise a costeggiare un canale, ai cui lati erano appena stati piantati alberi alti e filiformi, sostenuti da una specie d’impalcatura a fili.
« Chissà dove ci porta » osservò Rowena, con una punta di preoccupazione. Era già pomeriggio e quelle strade di pianura parevano interminabili. Forse si sarebbero persi e non sarebbero rientrati a Milano per la notte; ma perché la pianura sembrava infinita? O forse era Fabrizio che camminava troppo piano: forse non metteva nemmeno la quarta. Era come se facesse una passeggiata, senza porsi obiettivi di spazio o di tempo, e a quei tempi non esisteva ancora il navigatore.
I paesi che attraversavano erano sconosciuti, fin a quell’ultimo cartello, Ultimate. Fabrizio non aveva mai sentito quel nome, che rivelava la sua origine padana attraverso quella desinenza in -ate che indicava appartenenza.
« Un posto veramente “ultimate”, “definitivo”, come dite voi » asserì Rowena. Scherzava sul significato inglese del termine, forse per spezzare quel senso di angoscia che stava crescendo in lei e che minacciava di trasformarsi in panico.
Ed ecco che, come si poteva immaginare in quelle terre umide e in quell’aria vaporosa, che a respirarla sembrava di aver bisogno delle branchie, improvvisamente si trovarono avvolti da un denso banco di nebbia. Fu necessario ridurre ancora la velocità, perché a malapena si scorgeva la carreggiata, con le strisce bianche della mezzeria, due al massimo e pure non ben distinguibili.
Alla fine, Fabrizio trovò uno spiazzo in cui la strada si allargava e dove non c’era rischio di precipitare in una roggia invisibile, e fermò l’automobile.
Nel grigiore diffuso, che ormai stava per cedere all’oscurità più totale, apparve una luce. Era mobile e sembrava avanzare, anche se con qualche incertezza, verso la macchina.
Quando la luce fui a pochi metri si vide il viso di un ometto, che teneva in mano una torcia elettrica.
L’uomo si accostò all’automobile, dal lato del guidatore, e sembrò guardare dentro, come se cercasse qualcuno o qualcosa, poi bussò con le nocche delle dita sul finestrino. Diceva qualcosa, ma non si riuscivano a distinguere le parole. Allora Fabrizio abbassò il vetro.

« Venite in casa, presto: si fa buio! » diceva l’uomo, che poi soggiunse:
« Ti aspettavo, Brizio, sapevo che saresti passato di qua. »
« Non ti chiami Fabrizio Ponti? » fece Rowena, e i suoi grandi occhi verdi spalancati esprimevano stupore.
« Si, ma… » Era troppo difficile spiegare l’origine di quell’appellativo.
Tutti lo chiamavano Brizio, in famiglia, ma come mai quell’ometto lo interpellava con quel diminutivo?
« È un tuo parente? » chiese Rowena.

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Il testo, riveduto nei contenuti e nella forma, farà parte del secondo volume di racconti che seguirà Il bacio della maschera bianca, edito nel 2020.