Baia di Dio

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Era già la seconda volta che Rebecca mi trascinava alla riunione della sua comunità. E’ sempre così, quando stai con una donna: finisci per seguire le sue predilezioni, le sue fissazioni. Quando poi subentrano le tradizioni culturali, non ti salvi più. La volontà femminile diventa un precetto e non ti resta che arrenderti a una volontà superiore.
Avevo cominciato a leggere l’ebraico, ma ancora facevo confusione, perché trovavo troppe lettere simili le une alle altre, e poi che fatica abituarsi a leggere da destra a sinistra! «E’ solo questione di abitudine» diceva Rebecca. «Devi imparare a conoscere l’ebraismo. Lo capisci che se avremo dei figli saranno ebrei, perché l’ebraicità si trasmette in linea femminile». Sì, lo sapevo, e per questo? Mi servirà a qualcosa conoscere le tradizioni ebraiche, sapere che cos’è kosher e cosa no, imparare tutte le feste sconosciute ai cristiani e tutte le proibizioni che riempiono la vita di quel povero popolo?
A tutto questo lei ribatteva che gli ebrei erano qualcosa d’altro, erano diversi, perché in loro ardeva la vera luce di Dio.
«La luce di Dio?» Io non avevo bisogno di luci e anche di un dio potevo fare tranquillamente a meno. «Cosa saremmo stati noi senza la luce divina, senza la parola, senza la capacità di attribuire un nome alle cose?» Perché era questo in definitiva che raccontava la bibbia. Raccontava pure che la divinità si era unita agli uomini e aveva generato una specie superiore, che con Dio aveva stabilito un patto. Gli ebrei erano i discendenti di coloro che avevano tenuto fede al patto, e Dio li aveva resi capaci di vincere ogni nemico.

Non sapevo che dire, ma riconoscevo che una specie di strana luce (la luce di Dio?) filtrava dallo sguardo di quelle persone. La stessa Rebecca, che non era per niente bella, emanava un fascino al quale non avevo saputo resistere e probabilmente qualcosa di vero doveva esserci in quello che diceva. Possibile che le persone di genio dell’umanità fossero per lo più di origine ebraica, sicura o presumibile, o che, se quei geni erano maschi goyim, sposassero o scegliessero come compagna una ragazza ebrea?
«Sono le donne ebree a scegliere» scherzava Rebecca «e quando vedono la luce nel viso di un uomo lo legano a sé, perché merita di far parte di quella schiera di eletti che sentono in loro più forte lo spirito divino. Per questo le migliori menti dell’umanità o sono di stirpe ebraica o hanno avuto spose e compagne ebree. Se le hanno seguite e aiutate sono emersi in tutta la loro sapienza, se le hanno rinnegate e abbandonate sono crollati miseramente».
«Dunque io sarei un genio, e in che cosa?»
«Ancora non lo sappiamo, ma certamente hai qualcosa di geniale, altrimenti io non sarei qui con te».
Per scoprire quali fossero le caratteristiche della mia genialità, però, quale aspirante genio, dovevo impadronirmi dei mille segreti dell’ebraismo, della Kabbalah, dei sephiroth, dei significati esoterici dell’alfabeto e di infinite altre sciocchezze.
«E se non fossero sciocchezze?»
«Vivrò lo stesso».
«Ma vivrai nell’ignoranza».
«L’ignoranza spesso rende felici».
«Certo, ma mai quanto la conoscenza».
Insomma non ci fu nulla da fare. Era destino che la seguissi nel suo viaggio verso il sapere, alla ricerca di quella luce che per missione il popolo ebraico doveva riverberare sul mondo. Loro erano un faro che consentiva all’umanità di salvarsi, di evitare la rovina andando a frangersi sugli scogli della vita.
Così divenni anch’io un adepto, pieno di dubbi, è vero, ma istruito a sufficienza per seguire la mia compagna nella vita spirituale, oltre che in quella materiale e terrena.

Un giorno Rebecca mi disse che qualcosa di terribile stava per succedere e che l’unico modo per salvarsi era quello di intraprendere un viaggio verso la baia di Dio.
L’intera comunità si sarebbe incontrata nella vasta aula in cui si tenevano abitualmente le riunioni plenarie e da lì sarebbe partita per un luogo segreto.

A dire il vero, io stesso vivevo da qualche tempo una sensazione di attesa, la percezione e insieme il desiderio autodistruttivo di un’apocalisse inevitabile, che avrebbe ripulito il mondo dalle scorie con cui, per la nostra impurità e malvagità, avevamo deturpato la natura.
La riunione si aprì con una conferenza del professor K., famoso kabbalista dalla bianca barba, che cercò di convincere l’uditorio della necessità di mettersi in viaggio verso una località protetta. Qualcosa di spaventoso stava per rovesciarsi sul mondo. Già se ne potevano scorgere le avvisaglie nella rivolta del nostro pianeta contro il cieco egoismo degli uomini. Bisognava allontanarsi dalla collettività violenta e individualista per creare una nuova e più coesa unità, che si sarebbe sviluppata in una dimensione diversa, in uno spazio alternativo riscoperto, dopo millenni di percezione assente o limitata. Non capivo bene a quale dimensione o realtà K facesse riferimento. Molto chiaro era invece il pericolo legato alla permanenza nella nostra misera e disprezzabile realtà. Migliaia di antichi organismi si erano risvegliati a causa dello scioglimento dei ghiacci e alcuni, viaggiando nell’atmosfera, avevano già raggiunto le terre abitate. Una misteriosa malattia stava per diffondersi, un morbo contagioso che avrebbe utilizzato le particelle di pulviscolo denso e inquinato dalla combustione di idrocarburi per raggiungere gli esseri umani, che si sarebbe moltiplicato all’interno dei loro organi e che poi, col respiro, avrebbe attaccato un numero sempre crescente di uomini, ai quali avrebbe sottratto l’aria: un specie di attacco alieno, insomma, degno di una storia di fantascienza, ma proveniente dagli stessi abissi della Terra.
Bisognava trovare uno spazio nuovo e sicuro, dove l’infezione non potesse arrivare. Per raggiungerlo era necessario partire immediatamente, prima che il nemico ci raggiungesse. K indicò uno spazio, prima celato da una parete fittizia, in cui si raccoglievano gli strumenti della salvezza.
C’erano grandi barche, simili a canoe, ma di enormi dimensioni. Ci accomodammo in una di quelle. Dopo una decina di minuti i natanti partirono, scivolando in un canale che ben presto si aprì alla vista del cielo. Era un vero e proprio fiume, di cui non avevo mai sospettato l’esistenza. Il corso d’acqua serpeggiava tra rive dipinte di verde. Imboccammo un’ansa, dirigendoci verso un cielo violento, osservati da sciami di nuvole tortili e inquiete. Campagne mai viste si palesavano, costellate di case ingiallite, con le appendici che proteggevano i cas di fieno, utilizzati ogni anno per le necessità dei bovini.
Il viaggio fu lungo e il percorso tortuoso. Il fiume, più che fluire in un lungo rettilineo, serpeggiava, dividendosi in ramificazioni intricate e selvose, per poi ritrovare specchi più ampi e sereni. Si fece notte e decidemmo di fermarci su una riva, per attendere il chiarore di un nuovo giorno. Si accesero fuochi e molti, dopo una cena frugale, danzarono cantando antiche musiche popolari.
Dopo un breve sonno e molti strani sogni, si riprese a viaggiare alle prime luci dell’alba.
Il fiume rallentava la pendenza e finalmente in pieno sole apparve un panorama che non avrei mai immaginato di vedere fuori da una visione onirica.
Da lontano il posto pareva ameno e incantevole. Era una baia con varie alture tappezzate di costruzioni chiare e grandi, con ampie scalinate. Qua e là, tra le costruzioni si ergevano strutture che sembravano chiese o sinagoghe, in pietre più scure dal colore caldo. Quando fummo più vicini però i palazzi luminosi si rivelarono casermoni in stile moderno, in cui l’intonaco chiaro era in gran parte scrostato.
La nostra guida, un altro barbuto kabbalista, fece dirigere le barche verso un piccolo molo. Là si poteva accostare e ormeggiare senza pericolo alle bitte rugginose.
Scendemmo e camminando sui lastroni di granito chiaro raggiungemmo una banchina allagata di luce. Da questa sobria e limpida base procedeva una sorta di lungolago terroso, sul quale si affacciavano le abitazioni, di sapore novecentesco, con grandi finestre rettangolari dalle cornici in cemento, ma prive di balconi.
La cosa più sconvolgente era che non si vedeva nessuno, né per le strade, né alle finestre delle case. Nemmeno le chiese (se di chiese si trattava) parevano frequentate da esseri umani. Anzi, dappertutto, apparivano animali selvatici o uccelli, che zampettavano o svolazzavano senza timore, come se il territorio fosse stato lasciato libero dalla presenza degli uomini.
«Sono già andati via» disse la guida.
«Dove?»
«Verso l’unificazione. La terra non è più abitabile. Bisogna andare oltre, in uno spazio alternativo, dove il pensiero potrà creare un’altra realtà, libera e pulita. Qui non c’è più posto per gli esseri umani».
Inutile chiedere di più. I nostri barbuti filosofi parlavano sempre della necessità di liberarsi dalla stretta mortale dell’individualismo per raggiungere un’unità di genere, in cui le singole coscienze avrebbero formato una coscienza unica e immortale. Non pensavo però che questo si potesse realizzare fisicamente nella nostra realtà terrena. Confesso che la cosa un po’ mi terrorizzava. I visi dei nostri compagni di viaggio sembravano coinvolti invece da un’esaltazione estatica, da una fissità nello sguardo trasognato che faceva presumere che qualcosa sarebbe potuto accadere, che quell’esortazione, che pareva limitata all’ambito filosofico, potesse preludere a una vera trasformazione.

«Chissà cosa c’è oltre la baia?»
Guardai avanti a me. Il fiume sembrava scomparire in un cupo grigiore immerlettato di brume biancastre.
«Forse non c’è che il nulla».
Con uno sforzo d’immaginazione potevano indovinarsi al di là dell’acqua sagome imprecise, archi di tensioni irrisolte. Forse era lì che il nostro destino si sarebbe compiuto. Bisognava liberarsi dai timori, privilegiare il desiderio di conoscenza e la fame d’avventura.
«Proviamo. Andiamo a vedere».
Risalimmo sulla canoa, io e Rebecca, da soli, e ci muovemmo lentamente, verso l’ignoto.