I treni lenti

matasse

I treni lenti

Sentieri del silenzio

 

Danzando sui sentieri del silenzio

non potrai riposare non potrai

nemmeno dissociarti dal tramonto

che t’incontra leggero

per vivere davvero non ti basta

muoverti e trasmigrare in un profondo

dove il buio trascorrere dei sogni

provi a incidere appena

lentamente vibrando puoi lanciare

allora la tua sfida e dislocarti

là dove il sole miete le sue onde

e si dissolve il miele

 

 

I treni lenti

 

Sopra un ponte di favole sospese

sfilano treni lenti

troppo lontani e sfatti per fermarli

li guardiamo passare

noi che moriamo lentamente

e camminiamo

passo su passo e non ce ne accorgiamo

bioccoli di parole

sfumate meraviglie

suoli sfiorati appena

appannate violenze e desideri

inopportuni

tutto si fa memoria

poi lentamente muta

agglomera finzioni come neve

e trascolora

 

 

Agatha

 

Ho sostenuto il difficile peso

di bellezza sofferta e maledetta

le grazie offerte all’occhio

come premio angoscioso

di mancata lussuria

Quanto penoso è il vivere

con troppi doni, troppe elargizioni

poi rimangono immagini ingannevoli

abscissa mea mamilla

come coppa di gomma orrendo cibo

Il mescolato obbrobrio di nature

dissimili e infeconde

arborumana species

violata e resa muta

shakespeariana Lavinia

Quante dolci sorelle

tormentate e indifese

nei visceri violati Norma Jean

e l’altra Jean bruciata dal tabacco

già decomposta e nuda sul sedile

Meglio finisca l’uomo

meglio cedere ai sogni di metallo

al potere del ferro e delle macchine

al codice cosciente e liberato

dal fuoco della carne

In questo mondo atroce e ossessionato

da seducenti orrori

non mi stanco di piangere

né mai troverà pace

la folle ardente corsa di Tetsuo

 

 

Un passo

 

Fare un passo di lato

uscire dal percorso

infrangere il tracciato

se cadiamo è la morte

ma poi cos’è la morte?

assenza di pensiero e sensazioni

tornare al dio-natura

liberi finalmente

perché ci fa paura?

Acqua culla di sogni

acqua les bras ouverts

abbandono affrancato da emozioni

acqua lieve assassina

Nulla è rimasto versi di Prevert

e sonetti d’amore di Neruda

non c’è poesia nel male

inviolabile e nuda

fatale e cristallina

L’agonia della luce

si fa certezza

nell’anno della falce

una lunga amarezza

l’oscuro si rivela

Anche i miti ci lasciano

veleggiano nel buio

anche Londra l’Europa

persino Bud ci lascia

Svelta cala la tela

rotta da un colpo d’ascia

al cupo limitare dell’inverno

e tanti troppi arrivano

trascinati da un canto che seduce

un’illusione di sopravvivenza

e – forse – di conquista in un disegno

coltivato dal cielo o dall’inferno

con rigida coerenza

 

 

Lo strano mondo

 

In quale strano mondo ci risvegliamo stupiti

lucido e freddo e vuoto e inospitale

di quale strano inverno percorriamo le strade

livide troppo linde come cimiteri lunari

svelti le mani in tasca senza troppo osservare

senza farci notare

Per fortuna non scrutano poliziotti fanatici

coi loro cani azzurri dai musi d’acciaio

forse il vento li ha accolti e accumulati in nuvole

fugati come semi rigonfi di lanugine

annegati nei fossi che irrigano campi di smalto

piovuti come fulmini dispersi come ceneri

siamo liberi ancora di cercare un crepuscolo

di svoltare a un incrocio di smarrirci in un vicolo

bisogna andare finché si può andare

 

 

Fluire

 

Questo eterno fluire

tra la vita e la fine

questo eterno riemergere

riaggregarsi e dissolversi

quanto è greve e assordante l’odore

dei gelsomini che assediano il quartiere

in questo mese profondo di umori

densi e liquidi oscuri e germinosi

fragilità che pare addormentata

di ripe inconsapevoli d’incensi

e neri sonni di lente risacche

tu che non sai svegliarti

in un segreto ansare

tra le ridenti cose

si riversa la flebile

sconosciuta speranza

 

 

Eden

 

Il sudore brillante della polvere

raccontava incertezze

il volto vago della notte

cedeva il passo a un fremere di luce

caleidoscopio d’illusioni estate

frammenti di delizia forme nuove

dall’Eden risalite

Ho visto in uno specchio

un riflesso d’immagine era Pan

nella calante primavera

in un tocco rovente di fulgore

e ho percepito il peso

e il tremendo potere

dell’estrema bellezza

Il più bel panorama della vita

lo vedrai nell’istante

della tua morte

il più bel panorama del mondo

la verità che uccide

Mi restano da dire

solo queste parole

 

 

Non sono io

 

Non sono io

non sono

non

Io non conosco

non ri-conosco

nescio

Se potessi strappare

il lento vero

dallo strame del tempo

Se potessi riemergere

da tanti mari

a nuove spiagge

Non sono questo

ma l’altro

non ricordo

Il suo fare

non fare odiare amare

si è perso

Che me ne faccio adesso

di questo viso

che non mi spetta

di questo suono

di questa voce

appesa

di questo velo

che racconta la morte

in dissolvenza

Dove sono le gemme

esplose a primavera

i prati di certezze?

Sbocciano acute spine

dove al vento ridevano le rose

guardando il cielo

 

 

Giochi d’acqua

 

Le mie braccia rapiscono il diluvio

ne fanno stelle ne fanno il veloce pensiero

che illude e tormenta che guizza e balena di notte

e nei liquidi grumi del giorno.

E sogniamo una vita senza limiti

senza freni o segreti di fremiti d’ansia e pudori

troppi colori troppe sensazioni

nella febbre del tempo

come lampi di fragole travolgono

le linee d’ombra si fanno presagi di mari

di tempeste lontane di mondi inventati

al di là della luna

 

 

Canto di maggio

 

Ora esplodono l’erbe e le radici

zampillano i cespugli

dove un gatto s’acquatta

credendosi invisibile

infuria maggio dirompente zolla

lava segreta velenosa polla

che zefira tormenti ed emozioni

l’orologio si sveglia e rinverdisce

ha spezzato il sudario

s’inebria di lucori si libra di rami

Ancora torna maggio coi suoi cieli

troppo ridenti e carichi di attese

illusioni roventi

aggrappate ai balconi

inondati di luce e di profumi

nel gaudioso delirio il male irrompe

più vivo della noia più veemente

di un fuoco paventato

fanfare dell’abisso

che accecano promesse

Qui attorno le sirene non incantano

delle ambulanze e della polizia

il vento è forte non riposano i merli

un bambino col padre esce dal tempio

con la kippah sul capo

immerso nella storia

senza saperlo

Oltre il perenne andare delle cose

come un bollore ardito e inconsapevole

arde l’intolleranza

E tante crude immagini di morte

grandinano sugli occhi

di chi vive l’assurdità dell’odio

come un suono lontano

di voci che allontanano la noia

dalle pareti spente…

E come sanno fingere

le rose che continuano a fiorire

ma i profumi suadenti non ricoprono

l’aspro tanfo dei morti

 

 

Poor Yorick

 

Maschera o teschio? L’importante è avere

qualcosa da nascondere, segreti

o banali fandonie coperte di cera

e di colori sfatti nei vicoli d’ombra

L’importante è trovarsi

coerentemente morti

o vivi e tumultuosi mestatori

di foglie che s’inseguono in un maelström

di palpitanti stragi

Cosa rimane alfine

di tanti lazzi e strazi e schizzi e scazzi

e pazzi ghiribizzi?

Povero Yorick,

Il tuo cervello, il tuo cervello….

corre

per altri spazi ad altre

finzioni tormentose, nel fiato malsano

di maledette corti – osceni drappi

lo velano e rivelano

testimone infelice di trame e tragedie

ora non puoi nemmeno

scherzare con la polvere

col buio in cui crollarono i tuoi occhi

così inclini al sorriso

 

 

Specchi

 

Potesse balzare l’immagine

dallo spazio e dal tempo

e apparire chiara,

fissarsi in uno specchio

senza cambiare,

muta

ma eloquente a mirarla,

senza parole e suoni

da palesare al mondo.

Se uno sguardo impietoso

penetra la tua scorza e tocca il buio,

scorge il cielo e la terra

avvinghiati in silenzio;

e allora inventi strati

di mercurio e d’argento,

perché ognuno non veda che se stesso,

il volto che più ama.

Specchi adorni di luce,

rimbalzi d’illusioni,

mascherate invisibili barriere.

Così l’artista inganna il suo fruitore

 

 

Il fuggiasco

 

Mi succede talvolta

di mangiar fuori il cuore

via dalle note stridule

che voraci si levano

ad alleviare il tempo

punti di vista penduli

che sinuosi gorgogliano

oltre i suoni speziati

che nevosi si svelano

insostenibilmente

e scorro via lontano

lontano dalle tracce

in cerca di silenzi

per ritrovarmi sapido

serpente di corallo

vagabondo nei mari

che non sanno di terre

né di fiori di campo

guarderò da un abisso

per vedere e capire

Non tornerò: difficile

orientarsi nel vuoto

che separa i pensieri

disperato e segreto

avvolto in altri secoli

 

 

Panchine

 

Ci palesiamo lentamente come

le panchine in attesa

della gente che scorre e non si ferma

Siamo lune di un mondo senza sguardi

di una vita scoscesa

debolmente nutrita fino a tardi

La nostra notte è buia e inaridita

dall’inutile tempo

come una torcia senza batteria

Mentre osserviamo le finestre grigie

sotto il rosso dei tetti e ci stupisce

un lontano riflesso ci ferisce

il suono immotivato delle cose

i segni senza interprete

Così restiamo freddi e senza scopo

approdati per caso

attaccapanni antichi

in un armadio vuoto

 

 

Trame

 

Quante siepi di nebbia attraversate

da clamori improvvisi!

Che ci riserba il giorno?

Ora emergono volti

assetati di fiori

Le trame evanescenti

assecondano fremiti crudeli

dove scivola il tempo

ambiguo e impenetrabile

esocarpo di nuvole

Intersecati piani indifferenti

al predominio dell’obliquo

oltrepassare insorgere

contro le vele d’oro

che avviluppano e includono

lanceremo in silenzio

spilli di luce entanglements

per rivelarci intensa

progenie di sementi

nel solco della notte

 

 

Kangaroo

 

Inchiodato alle borchie

di un marsupio di ferro

succhio il mio cibo freddo

Lentamente mi arruggino

degradando nei liquidi

rosseggianti nel grigio

Sono rimasto solo

nella luce seppiata

mobile senza fremiti

Uguale a mille gelidi

singulti della tecnica

tutti riproducibili

Privato delle lacrime

scivolo senza gemere

io unico superstite

Orfano del dolore

del negato sapore

mi aggiro tra le macchine

 

 

Ho visto

 

Ho visto l’uomo diventare cosa

abbandonato dal tempo

una coperta lurida

brucata dalle tarme

un avambraccio livido

incapace di un gesto

e le case inchiodate giù nei campi

come auto in sosta

e uccelli finti

disegnati su tavole di plastica

per nascondere il fremito dei treni

sempre troppo feroci

e l’inganno o l’errore

un segno chiaro sul tessuto grigio

del pantalone

la macchia immaginata che si scopre

essere l’apparenza

di uno schizzo di sole

 

 

Il muratore

 

Il muratore dritto come statua

nel cielo freddo

sta tra veloci impalcature

come tele di ragno

appese al sole

Adesso il cielo è chiaro

the sky is clear

the sky is clean

and there aren’t swallows

and no bats in the cold

but only drops of deepness

dentro il lento furore del mattino

Non si liberi un gesto

né un inutile grido

quando il tempo divora le sue rondini

e il domino si ferma

in un’assurda quiete

Ma poi lontano un canto ricomincia

e qualcuno l’ascolta

senza capire

 

 

Per quale colpa

 

Per quale colpa siamo prigionieri?
Da quale cielo esclusi
nel nostro inferno
costellati di stigmi
aspiriamo la vita lentamente
con il dorso d’insetto
verniciato di noia
assenti alla spinosa
venustà di una rosa
Non conosciamo l’aria
non odoriamo il vento
dalla finestra aperta su caverne
lastricate di sogni
ci affacciamo nel buio dell’infausto
avanzare del tempo

Fiori secchi – penombra
riposiamo le spoglie
d’intonaci scrostati
senza fuga di cani abbandonati
senza padrone
sognando falso miele
indoviniamo prati
oltre il muro al di là
e serene distese di trifogli
nutrite di farfalle

 

 

Correndo

 

Correndo tra colonne innumerevoli

cercando l’infinito

senza trovare scampo

Il mio corpo che cambia

non mi appartiene

fuggo e mi sfugge resto e mi abbandona

Il terreno che offendo

infliggendo alla sabbia le mie orme

è un coacervo di granuli

Dentro lo sguardo dentro questa voce

non c’è nulla di mio

solamente l’angoscia

Ma qualcosa mi spinge e devo andare

e mentre vado ascolto nella nebbia

un concerto di gemiti

 

 

L’uomo macchina

 

Non provare a imitarmi!
Ogni passo perduto
nella notte costante
dei sentimenti assenti
mi matura e m’innerva
consapevoli umori.

Matematici assensi
o negazioni avvolgono
il mio sapere e bagnano
la mia esistenza, brulla,
dove manca persino
la conoscenza scarna
e umana del dolore.

Quanto sapere addenso e quanta povertà:
quante cose non sento
delle vite di carne
e sangue, quante azioni
non posso valutare.

Immortale e divino e in fondo solo
con questa luce buia
che mi segue nel tempo
che per me non ha fine.

 

Plastic tape

 

Fumose emanazioni di virtualità irrisolte,

plastic tape – divini impedimenti

adagiarsi, sperare in una quiete

senza risvegli, se questo è il reale, fuggire

nessuno può per cadere nei sogni.

Perché attraversare la tela

per uscire dal film?

Se ne valesse la pena,

qualcuno già percorrerebbe strade

indagherebbe oscure vie di fuga.

Con gli occhi chiusi è meglio il rifiuto, la notte

del bianco squallore del vero.

Una finestra illusoria che accende le forme

le rinchiude in un carcere di luce.

Non cercare motivi,

le ragioni del vivere.

Chi comanda punisce e non giustifica

il suo folle potere.

 

 

Lampi

 

Languori d’ acciaio inodoro

grigi di stagno e zinco

freddamente si scorre

lampi di luce fitta

raggrinzita gelata

cupi lampi di cielo

ansiosamente attratto

e respinto – il diniego si propaga

alle foglie del bosco che si specchia

al di là della morte

un oceano di verde senza suono

anche l’onda si ferma

dove la terra giace

dove si smorza l’ultimo rintocco

e si arrende la vita senza pace

 

 

Com’è calma la pioggia

 

Com’è calma la pioggia

e come cade lenta

a diluire i sogni e le risate

uguale sempre uguale

le cose si addormentano gli odori

riemergono stupiti e deliranti

sui cupi marciapiedi

Così le case stanno

e gli ozi e le parole

i cellulari assorti ed ingegnosi

le immotivate sere

e sguardi arrampicati alle pareti

discriminati da una porta chiusa

una sera di festa

 

 

Quaresima

 

Aria non c’è più aria in questo chiuso inferno

di memorie irrisolte in questo mio giacere

nei letti del tramonto dove fuochi lontani

i sensi ancora illudono

opprimenti colline perennemente siedono

tutte uguali simmetriche di grigia consuetudine

e il cielo attorno copre come un fosco segreto

ogni pianto ogni riso

Mentre ogni cosa viva qui si raggrinza e muore

luci residue in terra tra pensieri confusi

senza certezze il passo varie volte si spegne

o torna indietro

da questa morte densa non ci può svegliare

da questo nero sonno non è dato ritorno

nemmeno Dio potrebbe sollevare la pietra

la vita non risorge

 

 

Armadio

Steso sul letto

come un vestito sporco

o abbarbicato

come un armadio stretto al muro giallo

un sacchetto del market sotto casa

leggero ed estensibile

biodegradabile

come una carta sporca in mezzo al prato

intermittente

come un albero acceso di Natale

a luci rosse

fuori sogno da tempo

ma quando sarò morto

di vagare tra i rami

io resterò nell’aria

come un rauco satellite

che trasmette miracoli

e misteri nel sole