Killer city

Il viaggio più strano e terribile in cui fui coinvolto mio malgrado fu quello che mi condusse a Xilgoland, terra che vidi poi indicata come X-Place su una carta navale britannica.
Era un periodo della mia vita in cui provavo un violento desiderio di evadere da quel sogno angoscioso che è tutto sommato la nostra vita, ma non trovavo altri modi per esorcizzare l’angoscia che precipitare nel gorgo di altri sogni, ancora più temibili e perturbanti.
Un mio amico inglese, Philip Manner, mi aveva invitato a trascorrere alcuni giorni sulla sua barca, navigando alla scoperta delle isole del Baltico. Avevamo intenzione di visitare terre poco frequentate e luoghi dal fascino oscuro, ma una tempesta improvvisa ci costrinse a cercare riparo in una baia nascosta, che credevamo facesse parte del territorio svedese. Manner confessò candidamente di non sapere dove fossimo approdati, ma il suo innato spirito di avventura lo spingeva comunque a esplorare quel territorio, per sfuggire in qualche modo al vento e alla pioggia che cominciava a cadere pesantemente. Stava per giungere la notte. Assicurata in qualche modo l’imbarcazione, in un braccio di mare riparato dal vento che al largo infuriava, sbarcammo su una banchina che si ergeva sopra una spiaggia pietrosa.
Eravamo in cinque: io, Philip, il nostromo Ronnie Fisher, che si alternava solitamente al timone con Philip, e altri due marinai: Johnny e Peter.
La lunga striscia di cemento s’incuneava fin dentro un bosco che separava la costa da una terra invisibile, che ci auguravamo fosse abitata da qualcuno.
C’incamminammo quindi dirigendoci verso l’interno, seguendo un viottolo che pensavamo conducesse verso un’area civilizzata.
Dopo circa un chilometro di strada, il bosco si aprì improvvisamente, rivelando uno spazio pianeggiante completamente abitato, ricco di costruzioni ampie e alte, quasi simili a grattacieli. La cosa strana era che tutti quei palazzi, e tutte le strade che separavano gli edifici l’uno dall’altro, erano totalmente privi d’illuminazione, così che quella città pareva una città fantasma. Le case, chiare e di stile contemporaneo, si rivelavano allo sguardo a causa della strana luminosità del cielo, tormentato dai lampi, che spezzavano continuamente le tenebre.
I palazzi che si affacciavano su quella che pareva la piazza principale della città erano provvisti di ampi portici in stile novecento. Mi pareva di entrare, senza permesso, in un quadro di De Chirico. Per proteggerci della pioggia c’infilammo in una di quelle passeggiate coperte, cercando uno spazio dove rifugiarci, per attendere che la tempesta diminuisse d’intensità.
I portoni erano tutti sprangati e le arcate, che ogni tanto interrompevano la lunga teoria delle case, conducevano verso cortili aperti alle intemperie.
Finalmente scoprimmo un passaggio che sembrava portare a un luogo chiuso e protetto. Qui non c’erano porte e si poteva accedere senza problemi.
Decidemmo di entrare, mentre fuori le raffiche di burrasca scagliavano getti di pioggia fin dentro il porticato.
Ci trovammo così, quasi senza accorgercene, in un’enorme sala, fiocamente illuminata. Mentre cercavamo di capire da dove giungesse la luce, uno schermo si accese all’improvviso.
La sala stava dunque prendendo vita.
Lo schermo era gigantesco e su di esso, sotto la parola game in caratteri rossi, apparivano i nomi e il volto di numerosi uomini e donne. Accanto a ognuno di essi appariva un numero.
Lo guardammo stupiti e vedemmo che si aggiornava periodicamente.
La prima schermata recava il nome del gioco, Killer City, e subito dopo apparivano i players, i giocatori, che erano i nomi che avevamo già visto alla prima accensione dello schermo.
Ci avvicinammo pieni di curiosità. Qualcuno quindi abitava quel mondo che pareva abbandonato e, forse per placare la noia, cercava un modo per divertirsi e passare il tempo.

Per l’amor di Dio, venite via da lì, disse una voce che proveniva dal pavimento. Era così pressante e così decisa la richiesta che corremmo subito, al buio, verso il suono che ci aveva sottratto al fascino dello schermo.
C’era un’apertura nella pavimentazione marmorea e in quell’apertura una scala conduceva a un livello inferiore, dove si trovavano forse le cantine del palazzo.
Finite le scale, scorgemmo un uomo di bassa statura, dalla testa pelata, che teneva in mano una torcia elettrica.
Cosa sta succedendo? domandò Philip.
C’è una gara in questo momento, disse l’ometto
Che tipo di gara?
Una gara di tiro… a punti.
e chi vince?
Chi colpisce più avversari.
Con pallottole finte, immagino.
Philip pensava a una di quelle esercitazioni in cui i combattenti si colpiscono con proiettili che rilasciano macchie di colore o qualcosa di simile.
No… con veri proiettili.
Ma allora si ammazzano!
Sì, ed è così che si divertono. Perché il gioco diventa realtà.
E voi non siete in pericolo?
Sì certo, ma io sono il guardiano e non faccio punteggio.
Una pallottola vagante potete beccarla anche voi, fece il mio amico.
È per questo che, quando la gara è in corso, me ne sto tranquillo nei sotterranei.
E come fate a sapere che si tiene una gara?
Avvisano il giorno prima.
Ci guardammo perplessi.
Se volete uscire vivi da qui dovete andare oltre la zona abitata, ci consigliò il guardiano.
Era stato assunto, ci disse, per custodire i palazzi, poco dopo la costruzione di quel centro. Era un posto vivace, allora. Ci si era installata una ditta che lavorava nel settore delle intelligenze artificiali e che studiava prototipi anche per conto di vari governi. C’erano diversi alberghi, dove circolavano, in forma più o meno nascosta, membri dei servizi segreti di numerose nazioni. Non mancavano i locali notturni e i luoghi dedicati al piacere. Insomma, non era proprio un posto in cui ci si potesse annoiare, a quei tempi.
Poi, un giorno, era arrivato un uomo, un militare, che aveva incominciato a mettere tutta l’area sotto controllo. Alcuni turisti erano scomparsi o erano morti in circostanze misteriose. Pian piano gli alberghi, i locali, le abitazioni si erano svuotati e la noia aveva incominciato a dilagare. Gli eleganti palazzi, immersi nelle nebbie del Baltico, erano diventati covi di fantasmi. Le stesse aziende che avevano fatto costruire la città, l’avevano poi abbandonata, per non sottostare a un potere che non sembrava legato a nessuno stato riconosciuto dalla comunità universale. La loro era stata quasi una fuga, e si svolse in maniera così veloce che non ebbero il tempo (o forse la capacità) di portare via le attrezzature tecnologiche, che perciò rimasero in quel luogo.
Il capo militare, che si faceva chiamare generale Olbert, si impadronì di tutto e gestì il territorio con il supporto di una schiera di tecnici e di soldati.
Producevano videogames, soprattutto giochi di guerra, e con i proventi delle vendite mantennero in attività le strutture dell’isola.
Accanto a queste attività innocenti e legali, però, Olbert e i suoi dipendenti incominciarono a elaborare prodotti segreti e applicazioni militari, che vendevano sul deep web o avvalendosi di agenti reclutati in varie parti del mondo.
Ben presto sul deep web si diffuse la notizia che in area segreta del Baltico si poteva partecipare a war games più appassionanti di quelli virtuali, che avvenivano sui computer. Fu così che gruppi di fanatici cominciarono ad affluire in città per provare l’emozione di una vera lotta e di un vero pericolo.
Le macchine sperimentavano le varie applicazioni e gestivano veri e propri combattimenti, a supporto degli assassini che, in assenza di una guerra, cercavano di soddisfare in qualche modo l’istinto di morte che li dominava.
L’ometto che ci aveva accolto nei sotterranei non seppe dare indicazioni su quelle persone. Gli uomini che gestivano la città avevano sempre tenuta nascosta l’origine e il destino dei giocatori e lui, d’altra parte, non doveva occuparsene. Ci seppe dire solo che per la gara i combattenti erano divisi in due squadre, collocate in due aree distinte del complesso di costruzioni.

Ci rendevamo conto di essere capitati in uno dei posti peggiori da visitare sulla terra. Era un luogo di cui ufficialmente nessuno conosceva l’esistenza. Lì si poteva scomparire nel nulla, senza lasciare tracce. I morti erano cremati, ci disse il guardiano, con un metodo che ne dissolveva per sempre le cellule, a temperature elevate, mescolati ai metalli o fusi per ricavarne sostanze vetrose.
Cosa ci consiglia di fare, gli chiedemmo.
Riemergere lontano dalla città. Attraversare i sotterranei e raggiungere l’uscita più lontana dal centro.
Andiamo allora, dissi.
Percorremmo insieme un centinaio di metri, ma fummo obbligati a fermarci.
Il passaggio era sbarrato. Un cancello di ferro impediva di proseguire.
Di qui non si passa, disse Philip.
Eppure fino a ieri era aperto, disse l’ometto.
C’è un altro modo per venirne fuori?, chiesi.
Sì, ma è pericoloso. Dovrete provarci da soli. Io rimarrò qui, fece lui. Dovrete aggirare i combattenti di una delle due squadre e penetrare nel loro quartier generale.
Sa dirci quanti saranno?
Non l’ho mai saputo, ma penso che non ci siano più di due o tre tiratori scelti, magari con qualche sostenitore.

Ci guardammo, io e Philip. Certamente l’uomo che ci aveva offerto una via di fuga faceva parte della città e non poteva esporsi troppo nell’agire in nostro favore, ma proporci di assalire, in cinque, un gruppo di persone bene armate e agguerrite ci sembrava una incredibile baggianata.
Lui si rese conto della nostra esitazione e aggiunse:
Se arrivate nel loro bunker, non vi spareranno: non è previsto dalle regole!
Quindi ci consiglia di farlo?
Non c’è altra soluzione, se rimarrete sotto tiro, prima o poi vi elimineranno.
Non c’era altra soluzione. Rimanere fermi a fare da bersaglio non rientrava fra i nostri sogni più felici.
Ci indicò la strada. Bisognava tornare indietro e percorrere un camminamento secondario, stretto e umido, che ci avrebbe condotti fino al nascondiglio della squadra alfa, la postazione da cui i cecchini tenevano sotto tiro le strade e le case di mezza città.

Ci fermammo un attimo, prima di entrare di prepotenza nella stanza dei tiratori. Eravamo ben decisi ad approfittare dell’effetto sorpresa e ci apprestavamo a vendere cara la pelle.
Per questo fu grande la nostra sorpresa, quando facemmo irruzione, con le armi pronte a sparare.
La stanza era vuota.
Una consolle fremeva, mentre punti luminosi si accendevano e si spegnevano come luci di Natale.
Dove sono andati? Chiese il mio amico.
Mi fermai un attimo a riflettere, poi finalmente riuscii a capire. Sì, era andata proprio così, non ci poteva essere altra spiegazione: i tiri erano comandati da un computer e un’intelligenza artificiale regolava quel macabro gioco. E gli uomini, quelli che avevano inventato quell’assurdo divertimento? Probabilmente erano morti, uccisi dalle continue caccie all’uomo, oppure sopraffatti dalla vecchiaia. All’amore della morte si era sostituita la morte vera, quella che aveva messo fine alla noia insostenibile di quegli avanzi di umanità.
Dissi a Philip quello che mi pareva di capire.
Chi ci salverà dalla noia dei computer? disse Philip.

Un richiamo giunse dalla stanza successiva, una specie di saletta che i nostri stavano esplorando attentamente.
Venite a vedere, gridò Ronnie, il nostromo. Stava sulla soglia e aveva in mano una spranga che aveva raccattato da qualche parte, lungo il cammino.
Entrammo e, al di là della sala, in un’altra stanzetta nascosta, c’imbattemmo in qualcosa che non avremmo mai pensato di vedere.
Ben posizionato su una sedia a rotelle, addobbato con una specie di antica divisa di foggia militare, c’era un uomo, o meglio quel che rimaneva di un uomo. Una massa di capelli schiariti dal passare inesorabile del tempo incorniciava i resti di un volto, di cui si poteva scorgere solamente il teschio, che pareva sorridesse in maniera beffarda.
Doveva essere trascorso molto tempo dal decesso, perché non era più avvertibile l’odore nauseabondo prodotto dai cadaveri in decomposizione, sostituito da quello che avrebbe potuto essere descritto come tanfo di chiuso o di muffa, quale quello che si rileva spesso nelle caverne.
Immaginai cosa doveva essere successo. Uccisi l’uno dopo l’altro tutti gli avversari e persi tutti i compagni di gioco, quell’essere era rimasto solo, a combattere con l’aiuto dei computer la più inutile e stupida battaglia che mai si fosse disputata sulla terra.
Alla fine, la morte aveva celebrato la sua vittoria definitiva.
I computer, rimasti soli, ma ancora perfettamente funzionanti, avevano continuato a seguire le istruzioni ricevute. La guerra continuava, non poteva interrompersi, perché nessuno aveva istruito i cervelli artificiali ad agire diversamente, a interrompere le gare e a smettere di sparare, dal momento che non c’era più un nemico in carne e ossa da uccidere.
Cosa rimaneva da fare?
Bisognava disattivare le macchine, almeno in quel settore, poi individuare la posizione del settore avversario e fare altrettanto.

Cominciamo, dissi.
A fare cosa? Chiese Philip.
A disattivare le unità e le periferiche.
Cosa devo fare?
Cerca i contatti.
Non ne trovo.
Non c’era molto tempo per pensare. Il cervello doveva essere posizionato da qualche parte e poteva ordinare alle armi di spararci addosso, per difendere la postazione. La comunicazione però doveva avvenire tramite un sistema wifi, per cui non erano presenti fili, da staccare o tagliare.
Potrebbe essere dovunque, dissi.
Cosa?
Il cervello principale.
Beh, intanto eliminiamo quelli secondari, fece Philip.
Ronnie capì subito e iniziò ad abbattere la spranga sulle unità sfrigolanti. Si capiva che l’azione non poteva essere risolutiva, ma intanto c’era la speranza che quei servi non riuscissero più ad aiutare il padrone nella guerra.
Vedevamo che le scatole di metallo e plastica si accartocciavano e gemevano, ma nonostante questo qualcosa continuava a funzionare.
Non serve, dissi ai nostri, fate attenzione.
Via di là, disse Philip a uno dei marinai, che continuava ad accanirsi contro un armadio che pareva un megacomputer e rembrava resistere ai colpi.
Pensai che messo là davanti era un bersaglio ideale da parte dei tiratori dell’altra squadra, reali o virtuali che fossero.
Non avevo torto.
Quando incominciarono a fischiare le pallottole, cercammo di buttarci per terra, per proteggerci;
ma il marinaio che combatteva il mostro non fece in tempo a sottrarsi alla furia bellica.
Lanciò un grido e cadde sulle ginocchia. Era stato colpito alla schiena.
Johnny, gridò Philip, Johnny! Il giovane non rispose.

Bisognava pensare e decidere in fretta.
Dove poteva nascondersi il cervello?
Cercai di entrare nella mente ormai dissolta del vecchio signore di quel luogo e improvvisamente mi venne un’ispirazione.
Lo scheletro! Gridai.
Strisciammo sul pavimento e raggiungemmo la stanza dove il cadavere continuava a sorridere.
Il nucleo dei comandi doveva essere proprio lì, perché ci accorgemmo subito che quel luogo, da cui il vecchio militare dirigeva le operazioni, non poteva essere colpito da nessun lato. Infatti non aveva finestre, e la porta era fuori della portata di ogni possibile tiro nemico.
Soffocai il mio disgusto e mi accostai al corpo. Non c’era nulla di visibile, ma, tastando tra quello che doveva essere stato il collo e le spalle, mi accorsi della presenza di un collare. Attaccato a questo, sulla schiena, ben coperto dalla divisa, c’era un oggetto rotondo, che lampeggiava.
Eccolo, dissi.
Anche Philip si avvicinò e vide l’aggeggio di plastica che avevo scoperto.
E ora cosa facciamo?
Lo spegniamo, gridai.
Trovai un pulsante e lo premetti velocemente, senza pensarci due volte.
La luce dopo qualche secondo scomparve.

Il comando avversario, quello della squadra beta, era speculare a quello che avevamo conquistato.
Eravamo tornati indietro, per il passaggio che avevamo percorso all’andata. Giunti al punto di partenza, imboccammo il corridoio che immaginavamo conducesse all’ala opposta del palazzo.
La strada non era proprio identica e c’era un certo numero di scale e di stanzette da attraversare, ma alla fine raggiungemmo il quartier generale dei combattenti.
Avanzammo con cautela, non sapendo cosa attenderci, ma comprendemmo subito che ogni cautela era ormai inutile. Senza il controllo dell’unità appesa al cadavere di Olbert, le macchine erano diventate innocue.
Le luci delle unità informatiche però erano tutte accese e gli armadi, come le unità minori, producevano un sordo ronzio.
Ronnie non stette ad aspettare che qualcuno prendesse una decisione e si scagliò contro quei pezzi di metallo. Anche l’altro marinaio aveva rimediato un’asta con la quale prese a sprangate i computer.
Questo per Johnny, urlava.
A pensarci ora, forse sarebbe stato possibile recuperare una parte delle attrezzature e riutilizzarle, anziché distruggerle, ma troppa era stata la paura e troppo forte la rabbia per l’uccisione del nostro marinaio.
Ci volle una gran fatica, ma alla fine dell’epica lotta anche l’ultima luce si era spenta per sempre.
In fondo sono solo delle stupide macchine, disse Ronnie.