Il palazzo

Capita di non sapere distinguere, a distanza di tempo, le esperienze reali da quelle immaginarie. In particolare questo avviene per il ricordo dei luoghi.
Sembra di esserci già stati, eppure forse non esistono. Sono località che riconosciamo, che sembra ci appartengano, ma non è così.
Non sappiamo se le abbiamo incontrate davvero nella nostra vita o nella vita di qualcun altro, di quel qualcuno che eravamo prima di essere quello che oggi siamo coscienti di essere.
Sono immagini che ritornano. Probabilmente stiamo sognando, ma ricordiamo di aver già fatto lo stesso sogno, di aver già visto quei posti o qualcosa di molto simile. Il riconoscimento crea un’illusione di realtà.
Città, strade, bastioni, camminamenti: spazi da percorrere per tornare a casa. La casa non è mai lontana, in questi viaggi, ma è difficile raggiungerla: ci sono tante asperità, avvallamenti, viottoli brulli, sterrati, costruzioni da attraversare, cantieri che non consentono di utilizzare la via più breve e più diretta.

Così mi trovo a viaggiare, ancora una volta. Ho lasciato la macchina da qualche parte e ora proseguo a piedi, per visitare un paese ai piedi di una collina. La strada m’impone di passare attraverso un antico palazzo.
C’è una prima immagine. Una sorta di enorme spazio scuro. Si cammina su lastroni (o su un unico lastrone?) di granito o di roccia: una piattaforma umida, che conduce a una scalinata che porta a un livello inferiore. Rimane nel ricordo la sensazione di una superficie lucida e giallastra, scivolosa, un pavimento che sembra un molo bagnato dal liquido melmoso di una palude sotterranea.
Lo spazio presenta, a destra, una grande apertura, che mostra il cielo e un’ampia ruvida collina, sulla quale si erge una costruzione fortificata, simile a un castello, con muraglioni estesi, torrioni piuttosto tozzi. Uno di questi però è in rovina e pare piuttosto che una struttura muraria un ammasso di pietrame in equilibrio precario.
Non vorrei trovarmi là sotto, dico a Dino, mio figlio, che mi accompagna in questa mia peregrinazione.
Andando avanti, viene naturale provare a discendere la scalinata e si vede una specie di banchina viscida, dove siedono due uomini alti, coperti di fango grigiastro dalla testa ai piedi. Uno di loro si muove e forse ci guarda: una statua di fango. L’ambiente è scuro, ma s’intuisce che al di sotto scorre dell’acqua calda. Si tratta di terme naturali quindi. L’oscurità non invoglia a procedere. Bisogna uscire e tornare all’aperto, ma non è facile ritrovare il percorso. Ci s’imbatte in un corridoio con porte metalliche, corrose, che si apre su cortili abbandonati, pieni di erbacce. Su ogni lato fabbricati fatiscenti, ringhiere rugginose, bordure incrinate in cemento per aiuole ormai trasformate in pozzanghere da cui emergono ciuffi d’erba spontanea. Appare chiaro che andando più in là si finisce per addentrarsi in aree disabitate, che sfociano nell’aperta campagna. Si fa qualche passo, al di là delle case, ma solo per scoprire che oltre quelle non c’è alcuna strada.
Bisogna tornare indietro, nella costruzione da cui si proviene. Qui s’incontra qualcuno. Sono due signore, non troppo giovani, che chiedono notizie su una farmacia. Ne abbiamo visto una, poco prima di entrare in paese, rispondo. Le donne mi guardano perplesse, parlottano tra di loro. Una dice Grazie, ma credo che abbiano il nostro stesso problema, tornare in un posto civilizzato, uscendo dal labirinto in cui ci eravamo infilati, senza troppo riflettere. Alla fine scelgono una porta ed escono. Anche noi proviamo ad aprire una dopo l’altra quelle porte di lamiera, ma non riusciamo a riconoscere quella da cui eravamo già passati: sembrano tutte uguali. Oltre le porte si sviluppano altri corridoi con altre porte. Troviamo stanze chiuse, buie e segrete, dall’odore di stantio.
Giriamo a vuoto, forse per chilometri. Non si trova una via d’uscita, da quel palazzo infernale.
Non tutte le stanze sono vuote. Qualcuna contiene ancora uno o due mobili tarlati. Rimangono anche delle sedie, o delle poltroncine dall’imbottitura sfondata, rivestita di velluto logoro, con motivi floreali. Ci fermiamo lì, ogni tanto, in quelle stanze, prima di tentare un nuovo percorso.
Dopo molti tentativi siamo certi che da quel palazzo non riusciremo mai a uscire.
Dobbiamo uscire dal sogno, dico, altrimenti rimarremo qui a girare in eterno per stanze e corridoi.
Sì, risponde Dino, ma come facciamo a uscirne?
Gridiamo, dico, gridiamo forte, forse qualcuno ci sentirà nel mondo reale!
Lo facciamo davvero, io e Dino, ci mettiamo a urlare: urliamo disperatamente, tirando fuori dall’animo la nostra angoscia, l’angoscia di essere precipitati in una realtà che non riusciamo a governare, che ci sovrasta con le sue spire, che ci soffoca con la sua irrazionalità.
Alla fine qualcosa succede.
È ancora buio, ma dalla finestra appare un cielo che comincia a schiarire.
Stai urlando come un disperato: hai avuto un incubo, dice una voce di donna.
Ci siamo messi a gridare, io e Dino, per svegliarci dall’incubo.
Nora scoppia a piangere
L’hai sognato di nuovo? dice, quando il pianto si placa.
Lo sogno sempre, le dico.
E com’è: è un bel ragazzo?
Uno splendido ragazzo.
Lo sarebbe stato, se fosse nato, dice lei.
In quel momento ricordo tutto: Nora che iniziava a trasformarsi, il suo viso che diventava più morbido e dolce. Tutto inutile. Lei che non poteva, che non avrebbe mai portato a termine una gravidanza. Finiva tutto con un piccolo grumo di vita che si staccava, che scendeva, che andava via.
Ricordo la clinica: stanze azzurre con tanti fiocchi, celesti e rosa. Persone dallo sguardo sereno, parenti che andavano da una stanza all’altra, una gioia che noi non potevamo condividere. Pulire, disinfettare, raschiare, eliminare i residui di qualcosa che non aveva avuto la possibilità di esistere. Noi che non avevamo fatto più l’amore da allora, per evitare quell’orrore, quella negazione della vita. Anche i miei occhi si riempiono di lacrime e mi trattengo dal singhiozzare, per non rattristare ancora di più la donna che amo.
La prossima volta non mi metterò più a urlare, penso, non cercherò più di tornare dal mio viaggio.