I campanelli

Questo è il mio raccontino di Natale. Se pensate che sia troppo palloso e natalizio, stampatelo, fatene una palla di carta e appendetelo all’albero.

Quell’anno Lucio doveva preparare l’albero, dopo tanto tempo. Ora lui e sua moglie non erano più soli: c’era un bambino in casa e loro volevano essere dei buoni genitori. Le piccole stanze brillavano di pulizia, perché gli assistenti sociali potevano ancora venire a controllare la situazione e dovevano trovare i locali puliti e il bambino sereno. Lui, il piccolo Carlo, si stava ancora abituando alla sua nuova sistemazione. Quando qualcosa non funzionava e veniva sgridato, prendeva la scatola in cui aveva riunito le sue vecchie e nuove cose e andava verso la porta; poi si metteva ad aspettare che qualcuno gliel’aprisse, come fanno i cani e i gatti. Stava li con la faccia compunta: – Idemo doma – diceva – che in italiano significa “Andiamo a casa”. La casa era ancora per lui la fattoria croata dove era rimasto per qualche anno, in attesa di un’adozione. Sicuramente la rimpiangeva, perché altra cosa è vivere all’aria aperta, tra cielo e animali, con un cane e tanti maialini, piuttosto che sopravvivere in un bilocale a Milano, con due adulti rompiscatole che pretendevano d’insegnargli la loro lingua del cavolo, mentre lui si faceva capire benissimo, in Croazia, con il suo dialetto di frontiera e la sua simpatica parlata nasale.

Lui parlava tantissimo, ma non si capiva neanche un decimo di quello che diceva. Lucio aveva imparato un po’ di croato, ma il piccolo aveva una strana cadenza dialettale e un lessico personalissimo, inoltre tendeva a storpiare le parole che conosceva, croate o italiane che fossero. Ben presto nel suo linguaggio entrarono termini televisivi, per lo più provenienti dai cartoni animati, anche questi di ardua interpretazione. Le cassette di Cip e Ciop erano diventate Ciccipečča, contrazione del jingle iniziale del cartone che faceva pressappoco “Cicip-e-Cip-e-Ciop”, e ci vollero diversi giorni per comprendere la richiesta del bambino, che desiderava solamente rivedere il suo cartone e si corrucciava perché nessuno lo accontentava.
Lentamente la situazione si era normalizzata. Il piccolo si era dovuto arrendere di fronte alla necessità di imparare un nuovo complicato linguaggio per comunicare le proprie necessità e i propri desideri e iniziava a considerare un po’ più sua quella casetta milanese e quella stanza con la pianta rampicante che, da piccola che era, ora aveva invaso quasi un’intera parete.
Poiché il Natale era prossimo, Lucio e Leda avevano comprato i regali e li avevano nascosti nell’armadione della loro stanza. Non si doveva guastare il momento della sorpresa; Leda era molto attenta a salvaguardare l’aspetto rituale della festa e a seguirne il cerimoniale non scritto.

I pacchi erano camuffati tra gli abiti appesi e protetti dalle grandi ante bianche, come dalle ali di uno spirito benevolo e silenzioso.
La notte di Natale, prima di mezzanotte, quando Carlo si era appena, forse, addormentato, i pacchi erano stati finalmente tolti dall’armadio e collocati apertamente sotto il grande abete artificiale.
Poi Lucio e Leda si coricarono, dopo aver spento ogni luce, in quella notte che era diversa da ogni altra notte della loro vita.

Lucio ripensava alla sua avventura in Croazia, quando ancora c’era la guerra e varie macchine straniere erano state colpite da proiettili, anche nelle strade che lui aveva percorso, con la sua Dedra verde, per andare al Centar za socijalni rad, dove portavano i bambini per gli incontri preliminari all’adozione. La sezione slovena dell’autostrada era danneggiata dal passaggio dei carri armati dell’esercito federale jugoslavo: si vedevano bene i segni dei cingolati pesanti e ci si accorgeva del danno passandoci sopra con l’automobile. La strada per Zagabria era innevata e in discesa; un camion era uscito fuori strada e si era rovesciato, ma la città, Dio sa come, fu raggiunta.
Zagabria era bellissima sotto la neve ed era bello camminarci dentro con gli stivali, scendendo dalla città alta: una gran camminata in mezzo a una neve da città dell’Est, non una neve da milanesi.

Poi ricordava la buzzara di scampi in quel locale, che era una specie di ristorante di stato, senza pretese ma di ottima qualità, in centro, non molto lontano dall’Hotel Dubrovnik. Quelle mense erano destinate a scomparire, sostituite dagli orrendi locali all’occidentale, dove ogni tradizione locale si annulla nella più bieca banalità di un gusto globalizzato.
Ricordava ancora, con una sorta di commozione, la cena all’Esplanade, nella grande sala di gusto mitteleuropeo, al suono del pianoforte e alla luce assonnata delle lunghe candele, con le cortine retro alle pareti, il cameriere che si scusava perché alcuni prodotti del menu, a causa della guerra, non erano per il momento disponibili. Sì, è vero, c’era la guerra. Davanti alla chiesa di San Marco c’era una protezione di sacchetti di sabbia; l’autostrada verso sud era deserta e non percorribile, perché pochi chilometri più in là si sparava.
Ora però Zagabria era lontana e Lucio si girò sul fianco destro, verso la finestra, per cercare di dormire.

La notte era fredda e calma. Le luci della città si riflettevano nel cielo, su quello strato di nebuloso grigiore che spesso si addensa su Milano. Nel dormiveglia Lucio percepiva quella persistente e vaga luminosità. Ma presto un’altra sensazione si aggiunse, viva e insistente: un suono lieve e argentino, come un tinnire di campanelli, che variava d’intensità, come se qualcuno si aggirasse nella notte con dei campanellini di metallo e nel muoversi li facesse suonare. La sua mente pensò subito alle renne e alla slitta di Santa Claus, con i campanelli che risuonano, mentre il piccolo convoglio corre e vola tra le case addormentate. Continuò a sentire il suono per un po’ come un sottofondo, ma una grande stanchezza subentrò e presto il sonno vero e profondo sopraggiunse.

La mattina dopo era spuntato il sole, il piccolo Carlo spacchettava i regali sotto l’albero e cinguettava in allegria.
I grandi si erano svegliati e lo guardavano, con ancora un po’ di notte negli occhi.
“Visto che Babbo Natale è passato?”, disse Lucio.
“Lo so, io l’ho visto!”, rispose il bambino e disse che quella notte, dopo che tutte le luci erano state spente, era apparsa un’ombra nera che si muoveva nel corridoio e nella stanza. Lui si era nascosto sotto le coperte e non era riemerso fino al mattino, quando la luce del giorno aveva scacciato misteri e magie, che a volte possono risultare piacevoli, ma che comunque sono pur sempre inquietanti.
Più avanti raccontò, con inusuale serietà, che anche lui quella notte aveva sentito chiaramente un gran tintinnio di campanelli.

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2 risposte a I campanelli

  1. lillopercaso ha detto:

    Accidenti! Chissà quando hai scritto tutte queste storie… alcune non riportano la data.
    Quest’idea della pallina di carta la tengo buona per il Natale prossimo (non che non mi sia piaciuto il racconto, eh!)

    Deor, sei arrivata 🙂 ?
    Io mi fermo qui, per ora; un’altra volta affronterò i post più lunghi.
    Se non li hai gia letti: a me è piaciuta molto anche la raccolta ‘Assassini’.
    Ciao e buona domenica a tutt’e due!

  2. deorgreine ha detto:

    Sto qui! 🙂 Mi è piaciuta l’ombra e anche i campanellini… un po’ meno il fatto della guerra, ma si sa, quelle son storie vere. 😦
    Assassini dici Lillo? Vado a cercarli! 😛

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