Biglietto

Ero uscito, per il pasto quotidiano, ma non avevo trovato niente di attraente ed ero ritornato in biblioteca, nel mio luogo di lavoro.

Doveva essersi fatto tardi, perché, appena imboccata la lunga scalinata che conduceva alla grande porta a vetri, incrociai un gran numero di persone che scendevano. Possibile che fosse già l’ora di uscita? Entrai, aprendo la porta a bussola e vidi altri colleghi che timbravano all’orologio.

Guardai il mio, di orologio, e vidi che faceva quasi le sette. Forse si era fermato. Dovevano essere le 12 o quasi le 12, se tutti abbandonavano il lavoro. Qualcuno mi confermò che stavano chiudendo.

Ridiscesi e mi ritrovai per la strada, in quel quartiere alto, collocato a un livello superiore rispetto al resto della città.

Dovevo trovare un biglietto per il filobus, perché altrimenti come avrei fatto a rientrare a casa, una volta arrivato in città? Il percorso era lungo e non avrei mai potuto farlo a piedi.

Le strade erano deserte, in quella parte di mondo, e cercai un locale che vendesse biglietti, come avevo fatto altre volte, senza successo. In uno spiazzo in salita vidi una specie di bar. La porta era chiusa, ma sentii che qualcuno, un uomo di una certa età, parlava a voce alta. Il posto non era invitante, e non mi arrischiai a entrare. Avrei forse trovato di meglio più avanti.

Proseguii quindi, sull’asfalto della strada grigia, che scendeva tortuosamente tra muraglie senza aperture: né portoni di palazzi, né locali pubblici. Non c’era nessuno, ma poi all’improvviso nel procedere incontrai una giovane donna, che anche lei doveva scendere in città. La guardai, ma non la vidi in modo chiaro, perché è difficile mettere bene a fuoco persone e cose, mentre si cammina.

Mi parve che il viso non fosse grazioso: il naso soprattutto era grosso e a uncino. La faccia ovale e la bocca sorridente però lo rendevano nell’insieme gradevole. La figura rimaneva indistinta, ma le gambe parevano belle: non portava calze, anche se l’estate non era ancora arrivata. Pensando a quelle sue gambe nude, l’accompagnai con piacere. Bisogna trovare la bellezza là dove si rivela, nei particolari.

Parlava con tono allegro ed era piacevole ascoltarla.

Ed ecco che raggiungiamo insieme il cunicolo che porta in città. E’ un’apertura quadrangolare, più alta che larga. Bisogna entrarci e lasciarsi scivolare fino al livello desiderato, fino alla grande città che giace al di sotto.

Volevo farla entrare per prima, ma poi finii per trovarmi davanti al cunicolo e mi infilai nell’oscurità.

Si scivolava con facilità in quel budello e la velocità della discesa non era eccessiva. Riuscivo a rallentare a piacere la caduta e a guardare dietro di me, dove la mia compagna di viaggio scendeva lei pure, con agilità. Solo per un momento ebbi paura che mi rovinasse addosso, il che comunque non sarebbe stato un gran male, perché avrei avuto la possibilità di afferrarla perché non si facesse male e di toccarle le gambe, quelle gambe che ora desideravo più di ogni altra cosa.

Superati svincoli e tortuosità alla fine si arrivò a destinazione. Il cunicolo ci scaricò su una grande piazza, quella che conoscevo da tempo. Lontana dalla mia casa, ma aperta e piacevole. C’erano alberi in cui di sera si rifugiavano colonie di uccelli che spandevano un canto incessante e cristallino, pieno di squilli e stridii.

La mia compagna non poteva trattenersi ad ammirare la piazza.

«Che fa, prende anche lei il filobus?»

«Devo comprare un biglietto».

«Ma qua non trova un’edicola di certo. Mi dispiace. Prenderò il mezzo da sola».

Sorrideva, con la bocca di un rosso squillante, quasi da donna vampiro, sul viso che appariva pallido, nell’aria frizzante del meriggio ventoso.

«Non ne ho un altro, altrimenti glielo offrirei».

Sembrava sincera, nel dispiacersi per l’interruzione di quella conoscenza imprevista.

«Ora devo proprio andare».

Restò un attimo a guardarmi, poi si voltò e si mosse: ancheggiava in modo divino: gonna stretta e gambe perfette. Peccato! Un’altra delle tante donne che non avrei mai avuto, per le bizzarrie del destino.

Così, senza biglietto, rimasi nella piazza. Le macchine passavano, lente e circospette, nel tentativo di evitare i numerosi passanti che attraversavano sulle strisce pedonali. Una vasta area, nella parte superiore, era destinata ai pedoni. Vi avevano collocato sedie e tavolini diversi bar, che si affacciavano sui giardinetti pubblici, in realtà poco più che aiuole. I bambini vi giocavano, mentre alcuni grassi piccioni caracollavano tutti tronfi e variopinti, pizzicando col becco i resti dei coni gelato.

Pensai, dato che mi trovavo lì, di pranzare con un gelato, senza perdere tempo a cercare un’edicola per comprare un biglietto e rientrare a casa, tardissimo.

Controllai se il denaro che avevo in tasca fosse sufficiente e mi sedetti a un tavolino, quando una ragazza si avvicinò e mi fissò senza vergogna.

«Mi sa dire dov’è andata mia sorella?»

Assomigliava un poco alla donna che mi aveva lasciato lì sulla piazza, ma il viso era più fresco e il naso meno pronunciato.

«Non lo so. Ho visto che prendeva un filobus».

«Non capisco dove sia andata. Abitiamo proprio qui vicino».

Il tono era perplesso e preoccupato. Si sedette senza che la invitassi.

«Non le do fastidio, vero?»

«Per niente. Mi piace parlare con le ragazze carine».

Sorrise.

«Quanti anni mi da?»

Ricordavo che in tempi lontani le ragazze amavano dimostrare più anni di quelli che avevano in realtà. Avevo risposto con sincerità a una ragazzina, che tra l’altro mi piaceva molto, e lei si era abbuiata.

«Venti».

«Ne ho quindici», sorrise.

«Davvero?»

Un cameriere si avvicinò.

«Un affogato al caffè. Lo prendi un gelato?»

«Sì, un affogato al whisky».

Il cameriere scrisse le ordinazioni e tornò nella scura apertura del locale.

«Non dovresti bere whisky».

«Sì, ma lo reggo benissimo».

«Non ti ho chiesto come ti chiami.
«Alina.

Il suo sguardo era di sfida. Guardò verso la strada che scendeva verso il mare e il suo sguardo era molto più verde di quello dello specchio d’acqua, lontano e dal colore tenue, quasi velato da una brumosità diffusa e sottile.

«Lavori su al Castello?»

«Sì in biblioteca».

«Sembra un mondo così lontano, quasi un altro universo».

«Invece tanti salgono da noi, vanno e vengono, ogni giorno».

«Ho dei vecchi libri a casa, posso farteli vedere. Vorrei sapere quanto valgono».

«Certo, quando hai tempo».

«Se vuoi, anche adesso».

Nel frattempo erano arrivati gli affogati. Alina si buttò avida sul suo. Le creme si liquefacevano in fretta e lei usava ampiamente la cannuccia. Io gustavo il mio con maggior calma e lo terminai senza concitazione.

Il sole ci sfiorava e accarezzava le gambe di Alina: miracoli indorati da una vita all’aperto, forse dovuti alla bici o al campo da tennis. Ammiravo quella bellezza serena, quella pelle adolescenziale appena adornata da una lieve e dorata lanugine.

«Andiamo, allora?

Si era alzata. L’espressione era quella che avevo spesso ritrovato nelle donne della buona borghesia: un sorriso appena accennato, gli occhi che paiono guardare qualcosa di più elevato e distante; una sorta di generosità con cui concedono la loro amicizia agli adoratori. Avevo già deciso di non ostacolare i piani di quella giovane divinità e di accompagnarla in qualunque avventura o in qualunque azione le fosse utile per trascorrere il suo tempo. Così entrai in quel palazzo e salii a piedi le scale, perché lei aveva stabilito di evitare l’ascensore. Le scale erano comode, ma i gradini consunti e bisognava prestare attenzione, per evitare scivolate e cadute rovinose.

All’altezza del terzo piano, la ragazza imboccò un corridoio che conduceva evidentemente al suo appartamento.

«Alina!»

Una voce maschile chiamava, con tono imperioso e quasi concitato.

La giovane interruppe il suo veloce cammino e si mosse in direzione della voce.

La seguii senza fretta, un po’ indeciso.

«Ha paura del buio?»

Lo disse con un sorriso, ma non si vedeva quasi nulla nella stanza.

«Si sieda lì, su quella sedia rossa, la prego».

Intravidi qualcosa di colorato, nell’ambiente tenebroso.

«E’ una poltroncina: è comoda, ma è troppo rossa».

Gli occhi cominciavano ad assuefarsi all’oscurità. Così cominciai a percepire la forma maschile che aveva chiamato la ragazza.

La forma ora era più evidente e si avvicinò ad Alina. Le sussurrò qualcosa all’orecchio: la ragazza si mosse e veloce abbandonò la stanza.

«Lei resti qui, non c’è bisogno che si alzi».

Non avevo nessuna voglia di alzarmi. Sentivo una pesantezza sconosciuta nel corpo, come se una forza superiore mi trattenesse in quella seggiola.

Mi appoggiai al bracciolo, che prima avevo solo percepito col tatto.

L’uomo aveva acceso qualche tipo d’illuminazione o forse aperto una finestra, perché ora la stanza era visibile, con i muri lisci e spogli.

«E’ incominciata».

«Cosa?»

«La fine del mondo».

Si percepiva qualcosa di irregolare nella stanza, o forse nel personaggio: qualcosa d’indefinibile, un sentore di stantio, come quello di vecchi biscotti. Sì, era un gusto stantio e dolciastro, simile a quello del furfurolo, mescolato però a una presenza impercettibile, ma reale: una presenza che emetteva un suono ronzante, come di qualcosa che ancora non c’era, ma già incominciava a manifestarsi.

«Lo sente questo suono?»

«Sì, ma che cos’è?»

«E’ il suono della fine. Nulla dopo questo momento avrà più importanza: né la bellezza, né la gioventù. Non si potrà più desiderare nulla dopo».

«E la ragazza? E’ sua figlia?»

«No, non ho figli».

«Ma la ragazza abita qui?»

L’uomo mi guardò come se vedesse al mio posto un relitto abbandonato da secoli.

«Lei è ancora attratto da quel vecchio mondo. Vuole sapere se Alina è una mia parente o una mia dipendente. Vuole definire i rapporti come si definivano nella sua realtà. Figlia, nipote, amante, puttana. Sono tutte definizioni che non hanno senso. Alina è un bel corpo, che può generare piacere. Anch’io, anche quelli nati un po’ prima, potevamo provare piacere, toccandola, o anche solo guardandola. Non è quello il problema. Il fatto è che tutto quello che si prova, che si provava, in quel mondo, era un’illusione, un inganno. Ora ogni sensazione si rivela per quello che era, si raggiunge il seme, il motivo».

Era in piedi e sembrava alto e possente, più di quanto avessi stimato appena lo vidi per la prima volta. Si avvicinò a una parete della stanza.

«Guardi. Adesso le farò vedere il suo mondo, quello che io tengo sotto controllo, così da impedire che qualcuno desideri ribaltare le regole».

«Quali regole?»

«Le regole della verosimiglianza. Tutto quello che avviene in quel mondo deve apparire logico, credibile. Altrimenti si giungerebbe al miracolo, all’impossibile che diviene reale».

«Mi può dire se è mai successo che qualcuno abbia sovvertito le regole, che abbia voluto, con tutte le sue forze, andare al di là dell’apparenza?»

«Sì: è accaduto migliaia di volte. Avrà sentito parlare di persone scomparse, di scienziati, artisti o scrittori morti per suicidio. Ecco, quelle sono persone che hanno voluto attraversare il confine, conoscere la verità».

«Perché mi sta raccontando tutto questo?»

«Perché lei ha la possibilità di scegliere: è stato il caso a farle incontrare Alina e, prima, sua sorella. Non sono casi che succedono spesso. Alina mi ha portato già un paio di esemplari umani, ai quali ho proposto di scegliere».

«Tra la vita e la morte?»

«No, tra una realtà e un’altra».

«E se anche l’altra fosse un’illusione, un sogno?»

L’uomo mi lanciò uno sguardo intenso; mi parve che volesse dirmi qualcosa. Poi si girò e si mise a osservare la parete, che presto divenne luminosa e si rivelò essere uno schermo.

«Questo nessuno può stabilirlo. Noi sappiamo che quella, l’altra, è la vera realtà. In teoria potrebbero esistere infinite realtà, ma la cosa in fondo non è importante».

«C’è qualcosa di più importante del vero?»

«Sì: le nostre passioni. Ora lei vedrà su questo schermo quello che avviene in una strada. Ho scelto la salita, quella che parte da questa piazza. E’ una strada piena di negozi, dove le persone si fermano a guardare, a cercare».

Lentamente le immagini cominciarono a rivelarsi, sempre più nitide, piene di luce, di colore, reali, anche più di quelle percepite dagli occhi.

«Vede? Questo è il suo mondo e là scorrono le sue passioni: le persone, gli oggetti, tutto quello che lei ritiene vero».

Sullo schermo apparvero due ragazze; si avvicinarono a una vetrina, entrarono nello spazio espositivo che precedeva il negozio vero e proprio.

«E’ questo che le piace di più in assoluto: le donne, ovvero le loro immagini. Le ammira se le vede per la strada, ne apprezza i particolari, il viso, i capelli, le gambe, i piedi appena fasciati dai sandali. Le cerca anche nelle immagini sul web, nei cataloghi di moda, come un tempo sui rotocalchi, nei film. Li registrava, si ricorda? Registrava anche i video musicali, sempre alla ricerca di quelle immagini. Era affascinato da quelle parvenze, da quelle forme di luce. Non c’era nulla di materiale in quella ricerca d’illusioni: nessun contatto, nessun odore, nessuna azione fisica, oltre il guardare».

Aveva ragione. Nel contatto c’è sempre qualche componente sgradevole, disgustosa. Immagini o suoni costituiscono la parte divina della sensualità. La materialità interviene quando si aggiunge il tatto, ma olfatto e gusto spesso rovinano l’insieme, facendolo precipitare nell’abisso della ripugnanza.

«Se la sente di abbandonare tutto questo, tutta questa bellezza, anche se capisce che tutto esiste solo nelle cellette del suo cervello?»

«Ma non mi ha detto che tutto sta per finire? Quindi cosa dovrei scegliere?»

«Le ho detto che la fine è incominciata, ma sarà una fine lentissima. D’altra parte la fine inizia con la nascita. Lo sa benissimo che il suo percorso non è infinito. Lei potrebbe morire molto prima della fine assoluta del suo mondo. Nel frattempo potrebbe ancora per tanto tempo godere di tutta la bellezza che riuscirà a raggiungere, che arriverà a colpire i suoi occhi».

Il suo pensiero era finalmente chiaro. Potevo ancora decidere se lasciare il mondo materiale con tutte le sue attrattive o restarvi per continuare ad appagare i miei sensi per un tempo imprecisato.

C’era però ancora qualcosa che volevo chiedere, qualcosa che andava oltre ogni altro pensiero o considerazione, una ur-domanda, che rendeva subalterne tutte le altre domande possibili.

«Lei, voi, insomma… al di là o al di sopra di voi, c’è qualcosa o qualcuno a cui facciate riferimento, che vi fornisca indirizzi, disposizioni.

«Vuole sapere se c’è un pensiero, una fonte, qualcosa di superiore alla realtà di cui siamo parte?»

«Sì, qualcosa che stia al di sopra, che in qualche modo comandi, organizzi».

«Vede: noi, gli uomini e noi che li controlliamo, facciamo parte di due strutture visibili e limitate, di fronte all’infinito. Perché mai non dovrebbero esserci altri pensieri, altre realtà, che comprendano le nostre e che ne dettino le regole, dall’eternità? Se vuole, possiamo chiamare Dio questo pensiero, che ci gestisce e si diffonde attraverso universi infiniti e infiniti oggetti fatti di materia».

«Mi fa pensare a Giordano Bruno».

«Certo. Era semplicemente un pensatore che aveva delle intuizioni, che sosteneva cose dettate probabilmente dal buon senso. Peccato che, per aver espresso le sue convinzioni basate su logiche sensate e in fondo abbastanza evidenti, sia finito bruciato. Cioè il suo corpo è stato bruciato, non il suo pensiero, che come vede ancora resiste».

Le ragazze nello schermo si erano soffermate sulle immagini degli oggetti che apparivano attraverso il cristallo della vetrina. Guardavano le scarpe, quelle affascinanti creazioni destinate a rivestire le loro delicate estremità. Cuoio, fibbie, filamenti che imprigionano e rivelano: un gioco sottile di rimandi e sottintesi. Qualcosa che attrae e atterrisce…

Non potevo lasciare quelle illusioni dolcissime, che avevano accompagnato e condizionato tutta la mia esperienza di vita. Avrei continuato a bruciare, come Giordano Bruno. Solo che la mia consunzione sarebbe stata lenta e accompagnata dal sapore delle mie passioni. Sarebbe stata una dolce morte in fondo, quella riservata ai più fortunati tra gli uomini.

«Non posso» dissi. «Voglio restare».

«Può andare allora».

Lo guardai. Era serio, forse anche un po’ triste.

«Ci rivedremo?»

«Certo, ma non so quando».

«Non voglio saperlo».

«Il bello è proprio questo. Non sapere mai con certezza cosa accadrà».

La parete si aprì in modo inconsueto e mi trovai per la strada, davanti alla vetrina, proprio mentre le due ragazze stavano andando via, e potei solo vedere di sfuggita le loro svelte figure allontanarsi e sfarsi, come nuvole dissolte in un attimo dal vento.

Così anche il mio breve viaggio era finito. Potevo ritrovare, per qualche tempo, la mia quiete, vivere la mia quotidiana illusione, anche se ora ero più disincantato, più consapevole.