Hinterland

Avevo in tasca due biglietti e un’intera mattina di tempo libero. Per questo decisi di fare quello che non avevo mai fatto prima. Prendere la linea sei e andare oltre la città, là dove finisce la periferia e incomincia l’Hinterland, con i suoi paesini, i suoi spazi, quel mondo minore che non si ha mai occasione di conoscere.
Dopo le prime fermate, la metropolitana risalì in superficie, ritrovando la luce del giorno. Era una giornata luminosa e ogni tanto s’intravedeva qualche macchia di sole, sui muri delle costruzioni.
Decisi di scendere in una delle fermate intermedie, senza raggiungere il capolinea. Guardavo fuori dai vetri per scorgere i nomi delle località dai cartelli azzurri, ma il treno andava veloce e non riuscivo a individuare un cartello prima che stesse per scomparire, confondendosi nell’indistinta fuga delle cose. Dovevo essermi spinto fin quasi all’ultima fermata, quando riuscii a individuare un cartello e i caratteri confusi che vi apparivano. Il nome che mi parve di decifrare era Coni, un toponimo che non avevo mai sentito.
Il cartello scomparve e io, che mi ero ormai spinto fino alla porta di testa del vagone, trovai naturale scendere.
Appena fuori della stazione, l’ambiente che mi accolse fu qualcosa di inatteso e quasi paradossale. Quella località era come un paesino a mala pena urbanizzato nel cuore di un distretto industriale.
Peccato che non avessi con me la mia macchina digitale. Avrei potuto dipingere coi pixel una realtà che mi era stata fino a quel momento preclusa, e che mi appariva ora come se sorgesse da un sogno. Non si vedevano capannoni con le comuni ampie vetrate, né le vecchie ciminiere di un recente passato industriale, così frequenti dalle nostre parti. Simili a sereni animali, apparivano solo casette a uno o due piani, con stradine sconnesse, piene di ciottoli, tra i quali spuntavano ciuffi d’erba. Tra una casa e l’altra rimanevano ancora spiazzi in cui le piante selvatiche avevano la meglio sulla civilizzazione forzata guidata dai giardinieri. Qualcosa di primitivo e selvaggio pareva manifestarsi con tutta la sua forza.
Anche le piante curate dall’uomo avevano però caratteristiche particolari. In uno spiazzo, davanti a una costruzione che pareva abbandonata, era stata delimitata con dei sassi un’aiuola. Al suo interno si ergeva una pianta dal tronco robusto e dai corti rami, su cui si ammassavano infruttescenze simili a enormi fichi. Le stesse erbe infestanti, che avevano sviluppato rametti e tralci attorno alla pianta e nel poco spazio non ricoperto da lastroni di granito, presentavano caratteristiche che non avevo mai osservato nelle nostre terre.
Poco più avanti, lungo la stessa strada, si ergeva una struttura di un genere mai visto dalle nostre parti. La costruzione, esigua nelle dimensioni, più che una chiesa cristiana pareva un tempietto, a dispetto della croce che ne sormontava la cuspide più elevata. Era di un color rosso acceso, ottenuto con elementi costruttivi simili a brevi mattoni. La pianta era tondeggiante, ma irregolare. Mentre l’esterno dell’edificio mostrava aperture contornate da colonnine tortili e fitte decorazioni in pietra chiara. In apparenza sembrava che un architetto amante dell’ibridazione avesse voluto realizzare una mescolanza di barocco e di stile Khmer, una bizzarria di sapore vagamente orientale, nel cuore dell’Occidente.
Rivedo anche ora distintamente nel ricordo quello che sto tentando di descrivere e la mia mente riprova lo stupore provocato da quella vista.
Proseguii svoltando a destra e a un certo punto mi trovai in una strada chiusa, che terminava con un muretto e un cancello, che delimitavano una proprietà privata.
Mi fermai davanti al cancello basso, fatto con listelli di legno, e guardai davanti ame.
Al di là c’erano un giardinetto ben curato e, di fronte, una villettina di color rosa pastello. Nel vialetto che portava alla porta del villino si aggirava un cane, un bastardino dal pelo bianco sporco, con macchie più scure.
Il cane si avvicinò, manifestando intenzioni amichevoli. Si appoggiò al cancello, drizzandosi sulle zampe posteriori e si lasciò accarezzare.
Dietro di lui apparve il padrone.
È un cane socievole, osservai.
È stato sempre così, fece l’uomo. D’altra parte qui non ci sono ladri, né assassini.
Qui viviamo isolati, anche se la metropolitana ci ha dedicato una fermata. Da noi si ferma raramente qualcuno: non abbiamo attrattive, non produciamo nulla che altri abbiano necessità di comprare.
Smise un attimo di parlare, guardandosi intorno, come se volesse abbracciare tutto lo spazio visibile attorno a lui.
È il commercio che fa girare il mondo, disse.
Lo salutai e cercai di ripercorrere a ritroso la strada che mi aveva portato sin là.
Ritrovai alla fine la stazione e tornai a casa, dove speravo di soddisfare la mia curiosità sulle stranezze di quel piccolo centro.
Dovetti cercare la mappa della mia città negli scaffali alti del corridoio, quelli che avevo fatto montare per trovare spazio alla biblioteca, che ormai debordava dalle camere e si riversava dappertutto occupando ogni mobile esistente. Salii sulla scala di metallo e, dopo molte fatiche, riuscii a individuare la cartina, che si era astutamente dissimulata in mezzo alle altre mappe, quasi tutte di città straniere. Controllai con cura il territorio relativo alla fermata, senza trovare indicazioni specifiche. Si vedevano solamente aree verdi, solcate da strade senza nome. Accesi il computer e cercai notizie, ma nessuno aveva pensato di fornire notizie su quel paesino. Non apparivano segnalazioni di ristoranti, uffici o aziende. Nessuna informazione, come se quell’area dell’Hinterland non esistesse.
Ho avuto per qualche tempo l’intenzione di tornare su quel ramo del metrò e di scendere alla stessa fermata, ma ho avuto paura. Temevo che, essendo ormai trascorso del tempo, quel territorio avesse subito una mutazione e che la sua stessa realtà potesse essere messa in discussione. Insomma, il mondo è quello che è, nel momento in cui lo conosciamo. Basta un niente e tutto può apparire diverso e addirittura mutare la propria sostanza. Cosa avverrebbe allora alle nostre certezze? Che ne sarebbe della fiducia nella nostra percezione, quella che ci consente di proseguire il nostro viaggio nel mondo senza precipitare nell’angoscia e nella follia?