Modelli del Potere

Quando social media e piattaforme ti propongono, appena ti iscrivi, di seguire gente come Ferragni o Fedez, è facile ottenere in brevissimo tempo, milioni di followers. Bisognerebbe vietare questi incoraggiamenti da parte degli algoritmi e lasciare ognuno libero di seguire chi vuole, anziché indirizzare verso un modello di fatto imposto dal Potere.

Devo confessare che non riesco a capire come una bellezza scialba come la Ferragni e un tizio brutto, inelegante, astioso e sgradevole come Fedez siano diventati esempi mitici, da seguire da parte di ragazzi senza personalità e senza futuro; però sono stati abili nel costruirsi un personaggio, come avevano fatto, in altri tempi, soggetti di maggior spessore come Sgarbi o Mughini, e questo oggi, nella società dell’immagine, è un merito. Inoltre, il posizionamento nell’ambito della cultura del politically correct, di derivazione amerikana, ha facilitato la loro ascesa. Mi viene da piangere, se penso che queste figure fasulle, false e vuote di reali contenuti filosofici e culturali che non siano il successo economico e l’affermazione di sé, siano andate a sostituire i filosofi e i politici di una volta, gli artisti, gli scrittori, i cineasti del Novecento. Non sono un amante del passato, un laudator temporis acti, non ho gli occhi collocati sulla nuca, non ragiono (come ancora troppi in Italia e nel mondo) pensando a categorie come fascismo e comunismo, ma non vedo all’orizzonte nulla di nuovo e di valido, al di là di idee confuse e ancora sostanzialmente legate al passato, con una prospettiva imbevuta di catastrofismo, che ha sostituito quella, illusoria, ma in fondo positiva, rappresentata dall’icona del sol dell’avvenire.

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Dialogo tra Obo e un amico

Bloccato in casa dal raffreddore, sto ripescando “cose” dei tempi del liceo, come il personaggio di Obo, di cui si sono salvate alcune bozze (Obo era il personaggio più Sfigato di tutti i comics mai pensati). Qualche vignetta approssimativa è rimasta, su quaderni e diari di scuola. il dialogo però è nuovo e riflette la mia situazione attuale (uno che ha preso la tachipirina e che sta in vigile attesa).

Dialogo tra Obo e un Amico (Obo è quello con pochi capelli in testa).

Obo: «Ed eccoci a casa con un raffreddore della madonna.»

Amico: «Ma se il raffreddore è della madonna, perché ce l’avete voi?»

Obo: «Perché questa madonna è generosa e distribuisce quel che può anche agli altri.»

Amico: «Allora è madonna Bice.»

Obo: «Madonna chi?»

Amico: «Quella che non nega baci, baciar le piace che male c’è, Insomma una generosa!»

Obo: «Ah beh!»

Amico: «Ma sei sicuro che non sia covid?»

Obo: «Perché siamo vaccinati.»

Amico: «Sì, ma il vaccino era quello per il covid.00. Adesso c’è il covid.150/acheronte/carondimonio/telobecchicomunque e per quello i vaccini non servono.»

Obo: «Insomma, è come non aver fatto niente?»

Amico: «No, perché, se sei vaccinato vai direttamente in paradiso, altrimenti devi passare dal purgatorio per una degenza di 666 anni.»

Obo: «Ma questo è diabolico!»

Amico: «Infatti. Speriamo però che sia un coronavirus di quelli belli di una volta, che anche quelli te li prendevi a Natale.»

Obo: «Io me lo sono preso tanti anni fa quando mi sono sposato, a dicembre.»

Amico: «Si vede che era un segno del destino. Le disgrazie non vengono mai sole. Buon Natale, comunque.»

Obo: «Buon Natale anche a te.»

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Femminicidi

Nel mondo nuovo di Huxley erano vietati i rapporti stabili tra uomini e donne. La soluzione mi sembra un po’ estrema, ma eliminerebbe possessività e femminicidio. Se poi, oltre che della famiglia, ci liberassimo anche di dei e patrie, cesserebbero anche guerre di religione e per il possesso di territori. Gli uomini comunque continuerebbero a macellarsi tra loro per qualche altro splendido motivo, perché l’animale umano è per natura avido, violento e crudele, con l’eccezione delle persone miti e graciline, che spesso fanno una brutta fine. Come si vede, la mia visione dell’uomo è decisamente ottimistica, tanto da aver immaginato una figura di mitica vendicatrice dei torti femminili, la Maschera bianca, e da aver dedicato una delle mie migliori poesia a sant’Agata e ad altre celebri vittime della violenza maschile. Quanto al patriarcato, vorrei timidamente far presente che in alcune aree, come quella sarda, prevale da millenni il matriarcato e che è più probabile che una robusta massaia sarda (sa meri ‘e domu) picchi di santa ragione il marito piccoletto e tontolone, piuttosto che il contrario.

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Il demone dell’odio

L’odio è veramente dominante nella storia umana. Purtroppo mi capita di parlare, nei miei libri, di massacri, orrori, oscenità. L’ho fatto per gli eccidi africani in La casa dove gli angeli cantano, per la repressione argentina di Videla in Viaggio nell’odio, per le violenze antisemite in Le terme (Non ancora pubblicato). Il mio “Canto di maggio”, che apparirà nell’antologia poetica “Le mattine sono ancorate come barche in rada”, trae ispirazione da alcuni episodi milanesi di qualche anno fa, anche allora legati all’odio antisemita. Riusciremo mai a estirpare il seme del diavolo, che nasce sul terreno dell’estremismo religioso e si traveste, in maniera ipocrita, da bene e santità?

Vi lascio qualche verso, tratto da “Canto di maggio”:

Qui attorno le sirene non incantano

delle ambulanze e della polizia

il vento è forte non riposano i merli

un bambino col padre esce dal tempio

con la kippah sul capo

immerso nella storia

senza saperlo

oltre il perenne andare delle cose

come un bollore ardito e inconsapevole

arde l’intolleranza

e tante crude immagini di morte

grandinano sugli occhi

di chi vive l’assurdità dell’odio

come un suono lontano

di voci che allontanano la noia

dalle pareti spente…

e come sanno fingere

le rose che continuano a fiorire

ma i profumi suadenti non ricoprono

l’aspro tanfo dei morti

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Da un altro tempo

Vengo da un’altra epoca. Ho conosciuto una realtà in cui a scuola i bambini erano controllati per malattie di cui tra noi si è perso persino il ricordo. Siamo schierati in una lunga fila e un medico rovescia le nostre palpebre e ci esamina, per scoprire se qualcuno è affetto da tracoma. Il maestro è ancora una figura rispettata e temuta: punisce i più discoli con le sue micidiali bacchette di legno. Quei manigoldi offrono le mani e sopportano il colpo senza fiatare: sono abituati anche in casa alle punizioni corporali. La città è piena di mosche, che vagano dovunque. Per controllarne la diffusione si usano delle strisce di carta moschicida, ma si spruzza anche il DDT con la macchina per il flit. Nelle campagne, dove non arriva ancora la corrente elettrica, si adoperano i lumi a petrolio e le candele steariche. Per riscaldarsi e per preparare i pasti c’è una grande novità: la cucina economica.

Per passare il tempo si va al cinema, anche tutti i pomeriggi, tanto costa pochissimo, e si ascolta la radio. Madonna Bice non nega baci. Com’è delizioso andar sulla carrozzella. La nonna si sposta solo in calesse, perché il solo odore della benzina le provoca il mal di stomaco.

Sorge il desiderio di vedere le immagini dei cantanti, dei personaggi che parlano attraverso la radio, che è una scatola di legno levigato, con tante manopole che servono per manovrare la sintonia, il tono, il volume. Sarebbe bello vedere qualcosa, anche in piccolo, come in un minuscolo cinematografo, ma la televisione ancora non c’è e bisognerà attendere ancora per anni, prima di poter vedere immagini nebbiose, azzurrognole, che parlano e cantano.

Poi qualcosa si muove: i tempi cambiano. Le radio rigonfie di grosse valvole sono sostituite da scatoline sonore che usano i transistor. Nei bar, accanto ai calciobalilla, appaiono i jukebox; nelle case i dischetti di vinile s’infilano nel mangiadischi. I ragazzi acquistano le sigarette in bustine da cinque. Fumano talmente tanto, quando organizzano una festa in casa di qualcuno, che la stanza pare la Val Padana. Il tanfo di tabacco permane per giorni nell’aria, sui mobili, sulle pareti, anche se si tiene aperta la finestra dall’alba al tramonto. Le riviste per soli uomini rivelano il sesso femminile ai giovani maschi che ancora non hanno le idee molto chiare sulle donne. Poi si diventa grandi: università, lavoro, illusioni di carriera. Muore il Carosello e nascono le tv commerciali. Scorrono gli anni, al galoppo. Si supera il 2000 e il mondo non finisce. Non rimane quasi niente nel ricordo. Alla fine la pensione, la paura di non contare più niente; i primi acciacchi.

Ora, nel secondo millennio, guardo dal terrazzino i nuovi grattacieli di Milano che emergono a fatica dalle brume del mattino: una sinfonia di grigi tappezza il cielo. Cosa dovrò ancora vedere, cosa dovrò scoprire?

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Libri e scandali

La creazione letteraria è veramente un mistero. Ha quasi del soprannaturale che un aspirante scrittore come me sia riuscito a scrivere un libro ispirato a vicende storiche di un’incredibile durezza, talmente disturbanti che io stesso ho difficoltà a leggere quella storia.

Forse la motivazione è stata quella di voler produrre un’opera come Sanctuary di Faulkner, così scandalosa ai tempi dell’autore che conoscenti e amici la leggevano di nascosto. Un’opera come quella non poteva passare inosservata e, di conseguenza, finalmente Faulkner conseguì il successo che fino a quel momento gli era sfuggito.

Oggi purtroppo è impossibile scandalizzare chiunque, dato che si sono pubblicate storie terribili e prodotti film carichi di sangue e di sesso. Malgrado questo, non consiglierei il mio libro a lettori particolarmente sensibili.

Ho dovuto rileggere il libro prima di autorizzare la stampa e ho scoperto che non tutto però è scandaloso e disturbante. C’è Buenos Aires, prima di tutto, con le sue tradizioni e la sua modernità: un insieme di terciopelo logoro e di gatti di porcellana, di cibi tradizionali e di belle donne. C’è l’ironia del protagonista, che sembra voler esorcizzare la tragedia col suo innato umorismo. Ci sono scene d’azione che sembrano prese da un film dei fratelli Coen. C’è la narrazione di contrapposizioni e motivazioni ideologiche e sociali. C’è la consapevolezza della necessità di superare gli orrori della Storia, di guardare al futuro e non, come spesso avviene, con gli occhi rivolti al passato. L’erotismo, che potrebbe sembrare eccessivo, ha la funzione di rendere l’atmosfera tenacemente torbida, in un mondo in cui tutto è retto da superiori poteri, di cui l’uomo comune nulla conosce e nulla deve sapere.

Ho iniziato a creare, per i miei futuri lettori, le mie playlist dedicate a Viaggio nell’odio. Spero che qualcuno le ascolti. La prima è su Spotify

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Cormac McCarthy

La giuria del premio Nobel ha una straordinaria pazienza. Attende pazientemente che muoiano tutti gli esponenti di una tradizione narrativa eccezionale come quella statunitense, per non essere costretta ad attribuire il premio a uno di loro. Così sono andati via Philip Roth e Cormac McCarthy, mentre gli svedesi, non volendo scegliere tra gli autori americani, hanno preferito regalare il Nobel a una vecchia mummia come Bob Dylan, forse per la grande notorietà del cantautore negli anni della contestazione e delle rivolte giovanili. Hanno celebrato il passato, per non saper scegliere il presente.

Detto questo, confesso di non aver mai avuto grande simpatia per McCarthy. Spesso eccessivo e carico di violenza gratuita, qualche volta incoerente (La strada) o alla ricerca di uno stile alto, che forse non era adeguato alla storia (Suttree). La mia impressione è stata sempre quella di scontrarmi con uno scrittore di grandi capacità, ma decisamente inferiore al suo modello, l’inarrivabile Faulkner. Sicuramente è un mio limite non comprendere la grandezza di McCarthy, a causa della mia strana antipatia per il western (Non sono mai riuscito a leggere nemmeno il vecchio Fenimore Cooper), compreso quello cinematografico. Non ho proseguito la lettura di Cavalli selvaggi e mi sono infastidito nell’affrontare lo stile di Meridiano di sangue, mentre ho apprezzato struttura, azione e personaggi di Non è un paese per vecchi, che mi sembra l’opera più riuscita tra quelle che ho avuto a disposizione.

Vi lascio comunque il testo delle mie vecchie considerazioni di lettura, per La strada e Suttree

La strada

In un mondo sconvolto da una catastrofe che ha cancellato la vita animale e vegetale, un uomo e un bambino, padre e figlio, si spostano verso il sud, per sfuggire al gelo di un nuovo inverno. Per sopravvivere è necessario trovare cibo, in qualche locale o abitazione non ancora saccheggiata, e soprattutto difendersi dalle bande di esseri disperati che, per sostentarsi, uccidono altri uomini e se ne cibano. Nel loro lungo viaggio verso il sud e il mare i due sperano di incontrare i sopravvissuti “buoni” e di unirsi a loro.

La narrazione è tenuta da McCarthy a un livello stilistico alto. Il tono è elegiaco. Il discorso intende essere emotivamente coinvolgente. Eppure il libro non convince del tutto.

La presenza del bambino è un troppo evidente ammiccare, anzi un giocare sporco, al patetico. In teoria il personaggio del bambino avrebbe una sua precisa funzione: rappresenta il futuro, la speranza, in un mondo in cui la speranza sembra ormai qualcosa di scomparso, un sentimento sepolto. Invece McCarthy mira a realizzare il suo personale giro di vite, carica eccessivamente il livello emozionale e riesce solamente a sottrarre autenticità alla storia.

Le criticità della narrazione sono però anche di natura diversa. Una catastrofe di cui non viene spiegata la ragione e che sembrerebbe aver eliminato ogni forma di vita (ma allora perché avrebbe risparmiato una parte degli uomini?) è poco credibile. Sappiamo che, anche nella peggiore delle ipotesi, qualcosa si salverebbe: qualche pianta, qualche animale. In particolare alcuni insetti, vari microorganismi. E l’uomo tenterebbe in qualche modo di rimettere in piedi una catena alimentare. La strada invece chiude ogni possibilità, sembra affermare e descrivere la più totale assenza di prospettive, limitandosi a raccontare la desolazione di un pianeta morto. A questo punto il lettore non riesce a capire da cosa possa rinascere una speranza, se l’unica prospettiva di sopravvivenza sembra legata all’antropofagia. Se i buoni non mangiano i bambini e non rimane altro da mangiare, si può sapere come faranno a nutrirsi? Tutto è rimandato a un oltre e a un quando di cui non sappiamo e non sapremo mai niente. Insomma, come dice un vecchio proverbio, finché c’è vita, c’è speranza.

Suttree

Apro Suttree e vengo accolto da un paio di pagine in corsivo dal tono smaccatamente letterario. Per descrivere un ambiente degradato, McCarthy ricorre a una sorta di prosa poetica, in cui non mancano parole rare e periodi extralarge. Il primo impulso di un lettore come me, amante della sobrietà e dell’isolata folgorazione poetica, che svetti sopra un contesto aspro e scabro, sarebbe quello di buttare il libro dalla finestra. Non lo faccio perché: A. Il libro appartiene a una biblioteca, B. Il libro è rilegato e robusto e non vorrei che, anche se la mia stanza si affaccia su una strada solitamente deserta, proprio in quel momento transitasse uno dei pochi passanti, magari trainato da uno dei soliti cani che obbligano gli umani a passeggiate indesiderate.
Proseguendo nella lettura del testo vero e proprio, non si attenua la sensazione che l’autore abbia inteso scrivere, con ostentazione, un testo letterario. Prevalgono ora i periodi brevissimi, le frasi di due o tre elementi separate da punti, là dove un autore del bel tempo andato avrebbe inserito i due punti o il punto e virgola. Se questo è il gusto attuale, niente da ridire. La cosa peggiore è che, riga dopo riga, scopro che, nel faticoso procedere tra similitudini e descrizioni, sensazioni e presentazioni di personaggi, il mio intento di lettore non è quello di conoscere la storia, che pure si va delineando, spesso in maniera indiretta, attraverso i dialoghi (enunciazione indiretta attraverso il discorso diretto… bello!), ma bensì quello di vedere quale diavoleria lo scrittore saprà inventare per abbellire lo squallore degli ambienti evocati, quale artificio esploderà come un fuoco a mare (o a fiume, in questo caso). Così capita che perda il filo della storia, ammesso che una storia ci sia, per inoltrarmi nel labirinto dell’abilità letteraria, che è (devo riconoscerlo) immensa. Mi viene voglia di fermarmi ogni tanto per battere le mani, o per imparare qualcosa, e capisco anche perché McCarthy sia uno degli autori prediletti dagli scrittori. Se è del poeta il fin la meraviglia, qui il principio è applicato in maniera eccezionalmente abile. Si capisce che l’autore ha mescolato le carte e ha fuso stili e modalità diverse di padroneggiare la scrittura. Appare come sia possibile mettere insieme Faulkner e Hemingway, Mark Twain, Joyce e Carver, Steinbeck, Beckett, Fante e Bukowski. Qui c’è tutto, fuso insieme e servito in un piatto d’argento. Di meglio forse non si può fare.
Avanzando con coraggio nella palude melmosa in cui sembrano nuotare (o affondare?) i personaggi, vedo baluginare qualcosa che proviene da un’altra mia lettura, lunga e sofferta. Sarà l’utilizzo di un gran numero di parole provenienti da una terminologia tecnica e naturalistica, sarà la grandezza di un personaggio che diviene sempre più mitico, una sorta di eroe-antieroe, con sprazzi di ardente positività nel suo essere diverso e maledetto, ma tutto questo mi riporta alla mente un altro grande libro: Les travailleurs de la mer di Victor Hugo.
Ed ecco che l’insieme procede con la stesura di lunghi pezzi di bravura, realistici e onirici allo stesso tempo: il viaggio nei boschi, la malattia e l’ospedale. Un momento a parte è costituito dal lungo episodio del legame del protagonista con la prostituta Joyce (Un altro dei personaggi si chiama Ulysses… questo mi ricorda qualcosa!)
A conclusione della lettura, confermo l’invito fatto più volte a me stesso, e agli altri lettori, a non abbandonare mai un libro prima della sua fine naturale, quella decretata dall’autore. Succede spesso, con le grandi opere letterarie, che la fatica richiesta al lettore sia notevole, che sia lento l’adeguarsi allo stile, che sia difficile entrare in sintonia con il narratore. Suttree non fa eccezione. Lentamente si finisce per entrare nella logica della storia, per apprezzare i personaggi, la sconcertante commistione di tragico e di comico che li caratterizza. L’ambiente, l’apparato descrittivo, sono da considerare, in questo romanzo, come veri e propri personaggi. La natura violentata dall’uomo (dalle angurie di Harrogate al fiume ammorbato dai detriti della civiltà umana), resiste e sopravvive. Il fiume continua a scorrere, deposito di vita e di morte. La vita prosegue, anche quella di Suttree, malgrado le sue vicissitudini e le sue delusioni.
Come in La strada, c’è sempre una speranza residuale, qualcosa che spinge a proseguire, perché tutto è in movimento, tutto spinge a superare l’orrore del male.
Un libro grande, oltre che corposo, e difficile. Stilisticamente impegnativo, sia per lo scrittore, che ci lavorò a lungo, sia per il lettore. Il risultato, però, attesta che valeva la pena di scriverlo, come vale sicuramente la pena di leggerlo.
Considerazione finale:
Libri come Suttree appartengono a quel filone che si basa su quella che definirei “estetica del disgusto”. Pare che, da un po’ di tempo in qua, gli autori più dotati e celebrati si dedichino a rappresentare scene e personaggi vomitevoli e disgustosi, talvolta anche in forme (per contrasto) eleganti ed estremamente raffinate. Spesso quest’esposizione di piccoli e grandi orrori assume caratteristiche grottesche o decisamente comiche. È probabile che l’esibizione degli aspetti più sordidi e ributtanti dell’esistenza umana rassicuri tutti i buoni borghesi che per loro fortuna vivono una vita tranquilla e spesso insulsa. La morale di questa produzione rivolta alla descrizione dell’abominevole (o dell’osceno) parrebbe di questo tipo: “Non lamentatevi, cari lettori colti e ben pasciuti, la vita, fuori dalle vostre case, dalle vostre scuole e dai vostri uffici, può essere un vero inferno. Per cui ringraziate Dio (o chi per lui) perché vi consente di condurre un’esistenza in cui fame, freddo e violenza non riescono a penetrare. Certo non potete evitare la malattia e la morte, ma se non altro soffrirete e morirete in modo confortevole.”
La deriva comica delle storie è un’ulteriore rassicurazione: “Gli esseri di cui parliamo sono anormali, bacati, marginali e inferiori. Non sono come voi, miei buoni cittadini-lettori:”
Comprendo che raffigurare ed evocare il diverso, l’orrido, il male risulti più interessante del narrare il vivere quotidiano, ma non posso non registrare un’eccessiva predilezione degli autori e del pubblico dei nostri giorni verso l’eccessivo e il repellente, che sembrano cancellare ogni altro aspetto della vita. Drammi e commedie dell’esistenza comune possono risultare ugualmente interessanti, se raccontati con lo stile giusto (almeno è questa la mia speranza). Resta comunque la certezza che il lettore che fra qualche secolo cercherà una testimonianza della realtà del nostro tempo nella letteratura scoprirà che la nostra società era costituita principalmente da criminali, prostitute, barboni, mattoidi e serial killer.

#Lastrada #Suttree #CormacMcCarthy #McCarthy #western #Nobel #Faulkner

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Identità

Tra globalizzazione, pensiero unico e ritorno esasperato della ricerca di un'identità

Il mondo si sta rovesciando. La mia non è un’affermazione o negazione di valori, ma una semplice constatazione. La cattiva coscienza di un occidente colonialista e imbevuto di superiorità nordica, dominato dalla cultura bianca di ambito anglosassone, si apre a un rovesciamento culturale, in cui tutto l’apparato valoriale dei dominatori, soprattutto sotto il profilo estetico, viene sostituito da un sistema alternativo, in cui è considerato bello, valido, interessante, tutto quello che prima era considerato inferiore e deprecato, in quanto esteticamente sgradevole. Si giunge a imporre in ogni ambito la presenza di figure africane, a costo di modificare la storia. Nero diventa equivalente di bello, buono, positivo. Gli eroi dei telefilm sono magrebini in Francia, turchi in Germania, afroamericani in USA. Ogni etnia va bene, purché non sia europea. Non si possono usare termini ritenuti offensivi, in quanto usati in senso negativo nel mondo anglosassone, non si possono usare nemmeno in lingue come lo spagnolo o l’italiano, in cui quei termini avevano in origine un semplice significato di colore. I film si precipitano a certificare la provenienza afro di personaggi come Heathcliff, che invece era probabilmente di origini rom, o di Cleopatra.

Il rovesciamento dei valori comporta anche la trasformazione della realtà sessuale. L’amore privilegiato, nei romanzi e nei film, diventa quello omosessuale, mentre il sesso etero viene di fatto emarginato. L’eccezione diventa la regola. I film su storie omosessuali sono apprezzate dalla critica, vincono premi, sono accolti positivamente da milioni di spettatori.

Questa rivoluzione valoriale genera però forme di reazione dapprima limitate a un senso di fastidio da parte di chi si sentiva ben inserito nel vecchio mondo, poi sempre più determinate, e a volte scomposte.

Così succede che il mondo di prima si ponga alla ricerca delle proprie radici e che quelle radici, in un mondo alla rovescia, diventino rami, sui quali costruire una rinnovata cultura basata sull’identità. Rinascono perciò popoli e nazioni, folclore e credenze religiose. La globalizzazione afrocentrica e quella LGBTcentrica generano paura, terrore di perdere la propria identità di tradizioni e comportamenti sessuali, in un mondo nuovo in cui non esistano più certezze e in cui tutto sia indifferenziato e legato a valori invertiti rispetto a quelli con cui si era stati abituati a vivere.

In questa realtà si affermano due opposte visioni, impostate su retoriche alternative e inconciliabili.

La retorica progressista ritiene che ogni forma di mescolanza e ibridazione produca effetti positivi. I nuovi cittadini, nati in Occidente, dovrebbero integrarsi nella cultura europea, smussando le asperità del pensiero e del gusto bianco, e divenendo campioni di tolleranza e di moderazione. Il nuovo popolo sarà più bello e intelligente e l’amore dominerà, in tutte le sue forme.

La retorica identitaria si fonda sulla convinzione che una pretesa purezza comporti migliori risultati per cultura e civiltà, conservando i valori delle culture dei popoli europei, sui quali il mondo bianco anglogermanico ha costruito il proprio potere e il proprio benessere. Sembra di veder riapparire la difesa da parte della classe senatoria romana dei valori della vecchia repubblica contro lo spirito orientale, che inquinava e corrodeva alle radici la virtus dell’antica Roma.

Inutile dire che nessuna delle due impostazioni ideologiche ha un sia pur minimo riscontro nella realtà. La presunta purezza etnica, che è a dir poco grottesca in paesi come l’Italia, già pesantemente sottoposti a forme millenarie, più che secolari, di ibridazione, può favorire la persistenza di antichi difetti e ancestrali tendenze; mentre una forma di sovrapposizione etnica e culturale può portare a reintrodurre in un paese avanzato forme di oppressione teologico-giuridica caratteristiche di epoche ormai superate, almeno nelle democrazie occidentali, nonché una mentalità bellicosa e misogina, che pensavamo di aver abbandonato da tempo.

Chiunque prevalga, insomma, assisteremo probabilmente alla sconfitta della moderazione e della naturale evoluzione del pensiero, schiacciati tra opposti e irrazionali estremismi. In previsione di tempi ancora più oscuri, il mondo continua ad armarsi.

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Jurassic Park all’italiana

Considerato il successo della reintroduzione di orsi e lupi nelle nostre montagne, consiglierei di proseguire nelle operazioni di ripristino dell’ambiente naturale. Perché non pensare allora all’inserimento di alligatori nei navigli, o magari della tigre dai denti a sciabola? Sempre nell’ottica di una ricostruzione degli ambienti naturali di una volta, si potrebbe immaginare il ritorno dell’uomo di Neanderthal, dei mammuth e di varie specie di enormi dinosauri. Dev’essere divertente correre tra le aride dune della futura Val Padana desertica gareggiando in velocità con un T-Rex, mentre zanzaroni grossi come aquile cercano di iniettarti sotto pelle virus e batteri dell’antichità riemersi dai ghiacci polari disciolti. Rallegriamoci per il trionfo della natura ricostruita dall’uomo e speriamo che, almeno, qualcuno pensi di restituirci anche il povero dodo e qualche altro innocuo animaletto azzerato dal procedere della civiltà.

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Vento sottile

Era un vento sottile
nel cupo verdeggiare degli ulivi
lente stelle sparivano
nell’albeggiare livido
aderenze invisibili
sfaldandosi cristalli
pensieri che svaporano
un lampeggiante fremito schiudeva
ancora lente porte

Perché tutto continua?

Macinavano grani
a ricavarne vita
a ricamare veli
a rammendare suoni e firmamenti
per l’accogliente abisso
tu non chiedergli tregue
non chiedergli pietà
rimane solo il sogno a consolare
ogni acuta tristezza

allora e adesso bruciano le pietre
e raccontano favole

Ma a cosa serve ancora camminare
o superarsi in volo
se il troppo sole incendia le promesse
di foglie accartocciate
solo strati di cenere
si addensano sfiniti

Nel lento gioco del parlare
si radunano sillabe
per nuove carovane
nel disperato accedere
alle città di sabbia

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