La giuria del premio Nobel ha una straordinaria pazienza. Attende pazientemente che muoiano tutti gli esponenti di una tradizione narrativa eccezionale come quella statunitense, per non essere costretta ad attribuire il premio a uno di loro. Così sono andati via Philip Roth e Cormac McCarthy, mentre gli svedesi, non volendo scegliere tra gli autori americani, hanno preferito regalare il Nobel a una vecchia mummia come Bob Dylan, forse per la grande notorietà del cantautore negli anni della contestazione e delle rivolte giovanili. Hanno celebrato il passato, per non saper scegliere il presente.
Detto questo, confesso di non aver mai avuto grande simpatia per McCarthy. Spesso eccessivo e carico di violenza gratuita, qualche volta incoerente (La strada) o alla ricerca di uno stile alto, che forse non era adeguato alla storia (Suttree). La mia impressione è stata sempre quella di scontrarmi con uno scrittore di grandi capacità, ma decisamente inferiore al suo modello, l’inarrivabile Faulkner. Sicuramente è un mio limite non comprendere la grandezza di McCarthy, a causa della mia strana antipatia per il western (Non sono mai riuscito a leggere nemmeno il vecchio Fenimore Cooper), compreso quello cinematografico. Non ho proseguito la lettura di Cavalli selvaggi e mi sono infastidito nell’affrontare lo stile di Meridiano di sangue, mentre ho apprezzato struttura, azione e personaggi di Non è un paese per vecchi, che mi sembra l’opera più riuscita tra quelle che ho avuto a disposizione.
Vi lascio comunque il testo delle mie vecchie considerazioni di lettura, per La strada e Suttree
La strada
In un mondo sconvolto da una catastrofe che ha cancellato la vita animale e vegetale, un uomo e un bambino, padre e figlio, si spostano verso il sud, per sfuggire al gelo di un nuovo inverno. Per sopravvivere è necessario trovare cibo, in qualche locale o abitazione non ancora saccheggiata, e soprattutto difendersi dalle bande di esseri disperati che, per sostentarsi, uccidono altri uomini e se ne cibano. Nel loro lungo viaggio verso il sud e il mare i due sperano di incontrare i sopravvissuti “buoni” e di unirsi a loro.
La narrazione è tenuta da McCarthy a un livello stilistico alto. Il tono è elegiaco. Il discorso intende essere emotivamente coinvolgente. Eppure il libro non convince del tutto.
La presenza del bambino è un troppo evidente ammiccare, anzi un giocare sporco, al patetico. In teoria il personaggio del bambino avrebbe una sua precisa funzione: rappresenta il futuro, la speranza, in un mondo in cui la speranza sembra ormai qualcosa di scomparso, un sentimento sepolto. Invece McCarthy mira a realizzare il suo personale giro di vite, carica eccessivamente il livello emozionale e riesce solamente a sottrarre autenticità alla storia.
Le criticità della narrazione sono però anche di natura diversa. Una catastrofe di cui non viene spiegata la ragione e che sembrerebbe aver eliminato ogni forma di vita (ma allora perché avrebbe risparmiato una parte degli uomini?) è poco credibile. Sappiamo che, anche nella peggiore delle ipotesi, qualcosa si salverebbe: qualche pianta, qualche animale. In particolare alcuni insetti, vari microorganismi. E l’uomo tenterebbe in qualche modo di rimettere in piedi una catena alimentare. La strada invece chiude ogni possibilità, sembra affermare e descrivere la più totale assenza di prospettive, limitandosi a raccontare la desolazione di un pianeta morto. A questo punto il lettore non riesce a capire da cosa possa rinascere una speranza, se l’unica prospettiva di sopravvivenza sembra legata all’antropofagia. Se i buoni non mangiano i bambini e non rimane altro da mangiare, si può sapere come faranno a nutrirsi? Tutto è rimandato a un oltre e a un quando di cui non sappiamo e non sapremo mai niente. Insomma, come dice un vecchio proverbio, finché c’è vita, c’è speranza.
Suttree
Apro Suttree e vengo accolto da un paio di pagine in corsivo dal tono smaccatamente letterario. Per descrivere un ambiente degradato, McCarthy ricorre a una sorta di prosa poetica, in cui non mancano parole rare e periodi extralarge. Il primo impulso di un lettore come me, amante della sobrietà e dell’isolata folgorazione poetica, che svetti sopra un contesto aspro e scabro, sarebbe quello di buttare il libro dalla finestra. Non lo faccio perché: A. Il libro appartiene a una biblioteca, B. Il libro è rilegato e robusto e non vorrei che, anche se la mia stanza si affaccia su una strada solitamente deserta, proprio in quel momento transitasse uno dei pochi passanti, magari trainato da uno dei soliti cani che obbligano gli umani a passeggiate indesiderate.
Proseguendo nella lettura del testo vero e proprio, non si attenua la sensazione che l’autore abbia inteso scrivere, con ostentazione, un testo letterario. Prevalgono ora i periodi brevissimi, le frasi di due o tre elementi separate da punti, là dove un autore del bel tempo andato avrebbe inserito i due punti o il punto e virgola. Se questo è il gusto attuale, niente da ridire. La cosa peggiore è che, riga dopo riga, scopro che, nel faticoso procedere tra similitudini e descrizioni, sensazioni e presentazioni di personaggi, il mio intento di lettore non è quello di conoscere la storia, che pure si va delineando, spesso in maniera indiretta, attraverso i dialoghi (enunciazione indiretta attraverso il discorso diretto… bello!), ma bensì quello di vedere quale diavoleria lo scrittore saprà inventare per abbellire lo squallore degli ambienti evocati, quale artificio esploderà come un fuoco a mare (o a fiume, in questo caso). Così capita che perda il filo della storia, ammesso che una storia ci sia, per inoltrarmi nel labirinto dell’abilità letteraria, che è (devo riconoscerlo) immensa. Mi viene voglia di fermarmi ogni tanto per battere le mani, o per imparare qualcosa, e capisco anche perché McCarthy sia uno degli autori prediletti dagli scrittori. Se è del poeta il fin la meraviglia, qui il principio è applicato in maniera eccezionalmente abile. Si capisce che l’autore ha mescolato le carte e ha fuso stili e modalità diverse di padroneggiare la scrittura. Appare come sia possibile mettere insieme Faulkner e Hemingway, Mark Twain, Joyce e Carver, Steinbeck, Beckett, Fante e Bukowski. Qui c’è tutto, fuso insieme e servito in un piatto d’argento. Di meglio forse non si può fare.
Avanzando con coraggio nella palude melmosa in cui sembrano nuotare (o affondare?) i personaggi, vedo baluginare qualcosa che proviene da un’altra mia lettura, lunga e sofferta. Sarà l’utilizzo di un gran numero di parole provenienti da una terminologia tecnica e naturalistica, sarà la grandezza di un personaggio che diviene sempre più mitico, una sorta di eroe-antieroe, con sprazzi di ardente positività nel suo essere diverso e maledetto, ma tutto questo mi riporta alla mente un altro grande libro: Les travailleurs de la mer di Victor Hugo.
Ed ecco che l’insieme procede con la stesura di lunghi pezzi di bravura, realistici e onirici allo stesso tempo: il viaggio nei boschi, la malattia e l’ospedale. Un momento a parte è costituito dal lungo episodio del legame del protagonista con la prostituta Joyce (Un altro dei personaggi si chiama Ulysses… questo mi ricorda qualcosa!)
A conclusione della lettura, confermo l’invito fatto più volte a me stesso, e agli altri lettori, a non abbandonare mai un libro prima della sua fine naturale, quella decretata dall’autore. Succede spesso, con le grandi opere letterarie, che la fatica richiesta al lettore sia notevole, che sia lento l’adeguarsi allo stile, che sia difficile entrare in sintonia con il narratore. Suttree non fa eccezione. Lentamente si finisce per entrare nella logica della storia, per apprezzare i personaggi, la sconcertante commistione di tragico e di comico che li caratterizza. L’ambiente, l’apparato descrittivo, sono da considerare, in questo romanzo, come veri e propri personaggi. La natura violentata dall’uomo (dalle angurie di Harrogate al fiume ammorbato dai detriti della civiltà umana), resiste e sopravvive. Il fiume continua a scorrere, deposito di vita e di morte. La vita prosegue, anche quella di Suttree, malgrado le sue vicissitudini e le sue delusioni.
Come in La strada, c’è sempre una speranza residuale, qualcosa che spinge a proseguire, perché tutto è in movimento, tutto spinge a superare l’orrore del male.
Un libro grande, oltre che corposo, e difficile. Stilisticamente impegnativo, sia per lo scrittore, che ci lavorò a lungo, sia per il lettore. Il risultato, però, attesta che valeva la pena di scriverlo, come vale sicuramente la pena di leggerlo.
Considerazione finale:
Libri come Suttree appartengono a quel filone che si basa su quella che definirei “estetica del disgusto”. Pare che, da un po’ di tempo in qua, gli autori più dotati e celebrati si dedichino a rappresentare scene e personaggi vomitevoli e disgustosi, talvolta anche in forme (per contrasto) eleganti ed estremamente raffinate. Spesso quest’esposizione di piccoli e grandi orrori assume caratteristiche grottesche o decisamente comiche. È probabile che l’esibizione degli aspetti più sordidi e ributtanti dell’esistenza umana rassicuri tutti i buoni borghesi che per loro fortuna vivono una vita tranquilla e spesso insulsa. La morale di questa produzione rivolta alla descrizione dell’abominevole (o dell’osceno) parrebbe di questo tipo: “Non lamentatevi, cari lettori colti e ben pasciuti, la vita, fuori dalle vostre case, dalle vostre scuole e dai vostri uffici, può essere un vero inferno. Per cui ringraziate Dio (o chi per lui) perché vi consente di condurre un’esistenza in cui fame, freddo e violenza non riescono a penetrare. Certo non potete evitare la malattia e la morte, ma se non altro soffrirete e morirete in modo confortevole.”
La deriva comica delle storie è un’ulteriore rassicurazione: “Gli esseri di cui parliamo sono anormali, bacati, marginali e inferiori. Non sono come voi, miei buoni cittadini-lettori:”
Comprendo che raffigurare ed evocare il diverso, l’orrido, il male risulti più interessante del narrare il vivere quotidiano, ma non posso non registrare un’eccessiva predilezione degli autori e del pubblico dei nostri giorni verso l’eccessivo e il repellente, che sembrano cancellare ogni altro aspetto della vita. Drammi e commedie dell’esistenza comune possono risultare ugualmente interessanti, se raccontati con lo stile giusto (almeno è questa la mia speranza). Resta comunque la certezza che il lettore che fra qualche secolo cercherà una testimonianza della realtà del nostro tempo nella letteratura scoprirà che la nostra società era costituita principalmente da criminali, prostitute, barboni, mattoidi e serial killer.
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Libri e scandali
La creazione letteraria è veramente un mistero. Ha quasi del soprannaturale che un aspirante scrittore come me sia riuscito a scrivere un libro ispirato a vicende storiche di un’incredibile durezza, talmente disturbanti che io stesso ho difficoltà a leggere quella storia.
Forse la motivazione è stata quella di voler produrre un’opera come Sanctuary di Faulkner, così scandalosa ai tempi dell’autore che conoscenti e amici la leggevano di nascosto. Un’opera come quella non poteva passare inosservata e, di conseguenza, finalmente Faulkner conseguì il successo che fino a quel momento gli era sfuggito.
Oggi purtroppo è impossibile scandalizzare chiunque, dato che si sono pubblicate storie terribili e prodotti film carichi di sangue e di sesso. Malgrado questo, non consiglierei il mio libro a lettori particolarmente sensibili.
Ho dovuto rileggere il libro prima di autorizzare la stampa e ho scoperto che non tutto però è scandaloso e disturbante. C’è Buenos Aires, prima di tutto, con le sue tradizioni e la sua modernità: un insieme di terciopelo logoro e di gatti di porcellana, di cibi tradizionali e di belle donne. C’è l’ironia del protagonista, che sembra voler esorcizzare la tragedia col suo innato umorismo. Ci sono scene d’azione che sembrano prese da un film dei fratelli Coen. C’è la narrazione di contrapposizioni e motivazioni ideologiche e sociali. C’è la consapevolezza della necessità di superare gli orrori della Storia, di guardare al futuro e non, come spesso avviene, con gli occhi rivolti al passato. L’erotismo, che potrebbe sembrare eccessivo, ha la funzione di rendere l’atmosfera tenacemente torbida, in un mondo in cui tutto è retto da superiori poteri, di cui l’uomo comune nulla conosce e nulla deve sapere.
Ho iniziato a creare, per i miei futuri lettori, le mie playlist dedicate a Viaggio nell’odio. Spero che qualcuno le ascolti. La prima è su Spotify