Quando, per le limitazioni imposte dalla pandemia, ho deciso di salvare la maggior parte delle musiche composte da quand’ero ragazzino fino al nuovo millennio, non pensavo che quelle musiche potessero rivestire un qualche interesse, se non quello, sentimentale, legato ai miei personali ricordi. Ho lavorato per vari mesi, digitalizzando vecchie cassette, rinfrescando brani ormai lontani per stile e per esecuzione; ho aggiunto tracce, sovrapponendo voci e strumenti, utilizzato effetti, modificato il volume quando necessario, ma il prodotto è rimasto artigianale, privo delle raffinatezze proprie di una produzione professionale.
In questo modo ho ricavato cinque album, affidati a un distributore come Soundrop, che a quei tempi offriva un supporto totalmente gratuito agli artisti, anche improvvisati.
I brani sembra che abbiano avuto una certa diffusione in tutto il mondo, sono stati trasmessi da qualche radio, in luoghi impensati, entrando anche in classifica, cose che mi hanno fatto capire come il mondo, ormai, sia diventato piccolo e come non abbia più senso ragionare in termini di aree, etnie, religioni e simili.
L’ultima rilevazione degli ascolti sembra privilegiare un album bizzarro come Faccio delle cose incredibili, pieno di pezzi divertenti, sui quali non avrei mai puntato un centesimo.
I brani che risultano più ascoltati sembrano essere Edera e Everybody dances. Siamo tra pop e discomusic: il momento ludico prevale su forme più impegnate e raffinate. Forse è proprio questo che il mondo desidera in questi tempi, in cui sembra di camminare sull’orlo di un abisso.
La mia sorpresa è stata notevole, quando ho ricevuto una mail che mi informava di un pagamento da parte di Soundrop. Ho atteso che la somma fosse effettivamente accreditata sul conto che avevo aperto per caricare gli eventuali proventi di attività letterarie e simili e ho festeggiato l’avvenimento, che meritava una pizza, dato che in contemporanea avevamo deciso di festeggiare in pizzeria il compleanno di mio figlio.
Insomma, per concludere questa curiosa comunicazione, può darsi che, alla fine della mia carriera artistica, mi troverete nei peggiori bar di Caracas, o a Cuba o in Argentina, mentre suono e canticchio con un gruppo che potrebbe chiamarsi Cleanance Darkwater Revival o Led Zoppelin (con allusione al fatto che talvolta zoppico, quando i reumi attaccano senza preavviso le mie gambe).
Chi volesse continuare a considerarmi un aspirante scrittore, critico, poeta e simili, potrà iscriversi sulla mia pagina Facebook Biblioscalo, seguire la mia pagina Facebook personale o quella, nuovissima, dedicata al mio ultimo libro Viaggio nell’odio.
Odio e spy story
La storia di Belli-Reni-Wielopolski, spesso considerata secondaria, rispetto a quella del viaggio di Vanni, in Viaggio nell’odio, è invece fondamentale nella struttura del romanzo. La storia dell’agente è un vero e proprio piccolo romanzo di formazione, che ha una sua logica nel caratterizzare il testo come spy story, nell’ottica di una sorta di teoria del complotto, che coinvolgerebbe le strutture segrete che affiancano il potere, in ogni parte del mondo. La sua funzione è simile, in qualche misura, a quella delle vicende di Moosbrugger nell’Uomo senza qualità: elemento essenziale, ma non caratterizzante, che non trasforma il testo di Musil in un noir basato sulle gesta di un serial killer.
Viaggio nell’odio può comunque essere letto anche come romanzo d’azione, con qualche eco di Graham Greene o di Ellroy, considerando però che il tema fondamentale è quello dell’Italia-Argentina-Kakania, in cui l’odio continua il suo cammino, odio dei vincitori e degli sconfitti, dei rossi e dei neri, che rischia sempre di riprendere vigore, alimentato dalle forze oscure che governano il nostro mondo.